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Ascesa di un gangster
ORLANDO FIGES
SIMON SEBAG MONTEFIORE, Il giovane Stalin, trad. di Giovanni Ferrara Degli
Uberti, Milano, Longanesi, pp. 554, €29,00
1.
«Stalin», ricordava il menscevico Nikolaj Suchanov nelle sue memorie della
rivoluzione russa del 1917, «mi ha fatto l'impressione … di una macchia grigia
che tremolava oscuramente in lontananza senza lasciare traccia. Non si può dire davvero
nient'altro su di lui». Grazie agli scritti dei suoi nemici di tempra più
intellettuale, che influenzarono profondamente la storiografia occidentale dei primi anni
del regime sovietico, abbiamo finito per vedere nel giovane Stalin un individuo mediocre, fedele
seguace di Lenin, emerso dagli anfratti più bui del suo partito fino a ghermire il potere.
A contribuire più di ogni altro a questo ritratto fu Leon Trockij, acerrimo nemico di Stalin,
la cui Storia della Rivoluzione Russa, scritta in esilio fra il 1929 e il 1932, catturò
l'attenzione dei lettori occidentali per la sua prosa brillante. Trockij, che si considerava
l'erede naturale di Lenin, ritrasse il suo nemico giurato alla stregua di una nullità
proiettatasi al potere attraverso un'abile manipolazione degli elementi proletari del
partito che rappresentava. Cosí ne scriveva nella sua autobiografia all'epoca della
morte di Lenin, nel 1924: «Lo strumento principale di quel rivolgimento è Stalin, uomo
pratico, tenace e perseverante. Il suo orizzonte politico è molto limitato, il suo livello
teorico assolutamente primitivo … per la sua forma mentale egli è un empirico ostinato,
privo di fantasia creatrice. Nelle sfere direttive del partito lo si giudicava uomo da assumersi
in parti secondarie. E se egli ha adesso la prima parte, lo si deve non tanto a lui quanto alla decadenza
della politica».
La definizione trockiana di Stalin quale «cattivo ex machina», ebbe a notare una
volta Isaac Deutscher, è l'aspetto di gran lunga meno convincente de La
mia vita. Non si capisce, scriveva Deutscher, come una figura cosí «insignificante»
potesse costituire un serio antagonista per Trockij, e tanto meno come Stalin potesse giungere
a «dominare la scena dello stato sovietico e del comunismo internazionale per tre interi
decenni». In realtà, nel suo Testamento Lenin aveva descritto Stalin come uno dei
due «più abili membri del Comitato Centrale» e, come ben dimostra
Simon Sebag Montefiore nella sua illuminante nuova biografia, Lenin era l'unico a sapere
veramente quanto il suo partito dovesse alle «faccende sporche» compiute da Stalin
prima del 1917.
La letteratura sui primi anni di Stalin è relativamente contenuta certo in confronto
al profluvio di libri sul giovane Hitler , malgrado la presenza di un eccellente studio in
lingua russa di Aleksandr Ostrovskij, che attinge a materiale d'archivio da
poco reso accessibile e fornisce una solida base al lavoro di Montefiore. Stalin trascorse gran
parte di questi anni all'interno del movimento rivoluzionario clandestino, vivendo alla
macchia, tra un esilio e l'altro, in varie città del Caucaso, della Russia settentrionale
e della Siberia, fregiandosi nel corso del tempo di ben quaranta tra nomi, soprannomi e pseudonimi
diversi. Il suo biografo, di conseguenza, deve aspettarsi un bel po' di lavoro investigativo
negli archivi. Da questo punto di vista, Montefiore è un fuoriclasse. Come già nel
precedente Gli uomini di Stalin, egli ha scovato un'inaudita serie
di riscontri negli archivi di Mosca, San Pietroburgo, Tbilisi, Gori, Batumi, Baku, Parigi, Londra,
Berlino e in California, rintracciando altresí un'incredibile quantità
di testimoni, dai discendenti degli amici d'infanzia di Stalin ai suoi anziani conoscenti
tra cui la centonovenne Mariam Svanidze, imparentata con la prima moglie di Stalin, Kato,
che ne ricorda ancora la morte, nel 1907.
Non che il libro sia privo di difetti. Gli studiosi potranno avanzare riserve sulle sue saltuarie
scivolate in una narrazione semiromanzata, mentre altri saranno esasperati dalle note di chiusura,
da cui, in molti casi, è praticamente impossibile risalire alle fonti delle citazioni testuali.
Ma sono solo piccole sbavature in un testo magistrale, che fa definitivamente giustizia del mito
della "macchia grigia" rivelando il vero volto di un uomo che fu violento rivoluzionario,
rapinatore di banche, gangster, cantante, poeta, donnaiolo, pedofilo e spietato assassino.
Il ritratto di Stalin che emerge da queste pagine è più completo, più pittoresco,
più agghiacciante e di gran lunga più convincente di qualsiasi altro ci sia stato offerto
in precedenza.
Josif DÏuga�vili nacque nella cittadina di Gori, in Georgia, nel 1878. Grazie alla scoperta
negli archivi georgiani di un memoriale della madre, Montefiore è stato in grado di fornirci
un quadro più dettagliato della sua giovinezza. Il padre di Stalin, Beso, era un calzolaio
relativamente agiato, con vari apprendisti alle sue dipendenze, ma nel 1889 la sua azienda fallí.
Beso si diede al bere e picchiava spesso il figlio, che lo respinse in favore di una serie di figure
paterne, tra cui un commerciante e un sacerdote, l'uno o l'altro dei quali sarebbe potuto
essere stato il suo vero padre. Il vaiolo che contrasse da bambino lasciò segni imperituri
sul volto di Stalin. Un incidente in carrozza gli procurò gravi ferite a un braccio e a entrambe
le gambe, rendendolo fortemente complessato riguardo al proprio corpo. Le sue insicurezze sarebbero
state esacerbate dalla cultura machista della Georgia, contro cui si trovò a dover combattere
per sopravvivere. Gori era una città in cui le risse di piazza costituivano il principale
passatempo. Il piccolo Stalin ("Soso") faceva brillantemente a cazzotti. A capo di
una banda di teppisti, batteva le strade con fionda e arco, terrorizzando i contadini e il loro bestiame.
La madre di Stalin aveva piani ambiziosi per il figlio. Sognava di vederlo vescovo, lo fece entrare
nella scuola religiosa di Gori, e poi nel famoso seminario di Tiflis (Tbilisi), convincendo quel
medesimo sacerdote che era probabilmente il suo amante a registrarlo come figlio proprio (in epoca
zarista, seminari e istituti religiosi erano riservati ai figli dei sacerdoti). Montefiore sottolinea
giustamente l'influenza del seminario sul futuro dittatore. «Stalin dovette il suo
successo politico», sostiene, «a un'insolita combinazione di brutalità
di strada e istruzione classica». Il seminario di Tiflis incoraggiava entrambe le cose.
Era «un'istituzione più simile alla più repressiva public school dell'Inghilterra
ottocentesca che a un'accademia teologica; i dormitori, il diffuso bullismo e le pratiche
omosessuali, gli insegnanti santimoniosi e crudeli, le ore in cella di punizione ne facevano una
versione caucasica di Tom Brown's Schooldays».
Il seminario di Tiflis produsse più atei e rivoluzionari di qualsiasi altra scuola dell'impero.
I suoi monaci, scrive Montefiore, «erano ben decisi a cancellare ogni traccia di georgianità
nei loro allievi, i quali erano orgogliosamente georgiani». Da adolescente, Stalin andava
fiero della sua nascita georgiana (resta da chiarire come e quando rinnegasse tali sensi patriottici
per abbracciare il nazionalismo russo poi divenuto connotato centrale della sua dittatura).
Apprezzato per le sue qualità canore, venne spesso assunto per cantare melodie georgiane
ai matrimoni. Ammirava le poesie del principe nazionalista georgiano Rafael Eristavi, di cui
conosceva a memoria La patria del chevsur. Nell'emulazione di Eristavi scrisse
alcuni versi romantici, pubblicati in antologie di poesia georgiana, ben noti già prima
che di lui si fosse sentito parlare come rivoluzionario. Una delle sue poesie, scritta a diciassette
anni, narra la storia di un profeta solitario tradito dal proprio popolo. Citato da Montefiore
nella traduzione di Donald Rayfield, il componimento lascia già trasparire la mentalità
paranoide del futuro dittatore: «Su questa terra, come uno spettro/ Errava da una porta all'altra;/
Nelle mani stringeva un liuto/ E dolcemente ne scioglieva il suono;/ Nelle sue sognanti melodie,/
Come un raggio di luce,/ Potevi sentire la verità stessa/ E l'amore celeste./ La voce
faceva vibrare molti cuori/ Che erano diventati di pietra;/ Illuminava molte menti/ Precipitate
nella tenebra più profonda./ Ma invece di glorificarlo,/ Ogni volta l'arpa veniva
pizzicata,/ La folla deponeva davanti al reietto/ Una coppa piena di veleno…/ E gli diceva:
"Bevi, maledetto,/ È questo il destino che ti è assegnato!/ Noi non vogliamo la
tua verità/ E nemmeno le tue celesti melodie!"».
2.
Nei giorni in cui era ancora il più bravo corista del seminario, Stalin cominciò
a mostrare interesse per la sorte dei poveri delle città. «Durante le preghiere»,
scrive Montefiore, «i ragazzi avevano la Bibbia aperta sulla scrivania, ma in effetti leggevano
Marx o Plechanov (il decano del marxismo russo), che tenevano sulle ginocchia».
A ispirarlo fu un romanzo proibito di Aleksandr Kazbegi, Il patricida, ove si narrava
la storia di un bandito caucasico chiamato Koba che combatte i russi, sacrificando tutto per il
proprio paese, facendo poi orribile vendetta dei suoi nemici. E proprio "Koba" fu lo
pseudonimo rivoluzionario adottato da Stalin. Stando a Montefiore, «il nome significava
molte cose per Stalin: la vendetta dei popoli montanari georgiani, la spietatezza del bandito,
l'ossessione per la fedeltà e il tradimento, e il sacrificio di sé e della propria
famiglia per amore di una causa».
Montefiore ha parole di grande ammirazione per il Caucaso e per Tiflis in particolare. Descrive
un mondo di pastori di capre e di piccole botteghe artigiane, di muli, cavalli e cammelli, di cappelli
e fez in pelle di montone, di bazar e di postriboli un mondo improvvisamente e radicalmente
trasformato dall'arrivo del capitalismo internazionale (venuto a cibarsi dei giacimenti
petroliferi di Baku) e dall'espansione delle ferrovie. Stalin trovò un uditorio sensibile
alla sua semplice retorica rivoluzionaria nelle cerchie "operaie", prevalentemente
russe, che spuntarono nelle officine e negli scali ferroviari di Tiflis.
Nel 1899, Stalin fu espulso dal seminario per propaganda marxista, avrebbe sostenuto
in seguito, benché i riscontri rinvenuti da Montefiore lasciano intendere che fosse stato
coinvolto in uno scandalo sessuale (aveva messo incinta una ragazza), che la direzione del seminario
aveva pensato bene di occultare espellendolo, insieme a un'altra ventina di ragazzi, per
attività rivoluzionarie. Di lí a breve divenne capo di una banda di seminaristi espulsi
(altri quaranta furono cacciati dall'istituto nel 1901), che gestiva un racket di estorsioni
e controllava le strade nei quartieri operai di Tiflis. Stalin era la mente, mentre il suo compare
"Kamo", Simon Ter-Petrossian primo di una lunga serie di assassini psicopatici
incaricati di assolvere al lavoro sporco per conto di Stalin si occupava dell'organizzazione
delle bande.
Dopo una manifestazione operaia repressa dalla polizia e dai cosacchi nel 1901 a Tiflis, Stalin
riparò a Batumi, piccola cittadina georgiana sul Mar Nero che la costruzione di un oleodotto
e di una raffineria da parte dei Rothschild aveva trasformato in porto internazionale di primo
piano. In capo a tre mesi dal suo arrivo, la raffineria prese misteriosamente fuoco un incendio
doloso quasi sicuramente organizzato da Stalin (che allora vi lavorava) per intimidire il padronato,
ottenere un aumento di salario per gli operai e stando a Montefiore, che porta a riscontro
alcune prove dei segreti contatti di Stalin con la dirigenza riscuotere una tangente dai
baroni del petrolio.
Nel 1902, Stalin venne arrestato a Batumi con l'accusa di essere stato a capo di una manifestazione
nel corso della quale settemila operai si erano scontrati con un reparto di cosacchi a cavallo.
Imprigionato in attesa di sentenza, divenne ben presto il boss dell'intera cittadina carceraria,
«dominando gli amici, terrorizzando gli intellettuali, corrompendo le guardie e diventando
amico dei criminali», per usare le parole di Montefiore. Significativo preludio di ciò
che doveva seguire era il fatto che, per sua stessa ammissione, Stalin preferisse la compagnia
dei criminali a quella dei rivoluzionari, «perché tra i politici c'erano troppi
spioni». Nutrí sempre disprezzo e diffidenza verso gli intellettuali rivoluzionari;
li considerava infidi, li teneva a distanza (quando non li faceva semplicemente fuori), per fare
invece assegnamento su delinquenti di cui poteva facilmente manipolare la fedeltà. «Una
volta al potere», scrive Montefiore, «Stalin scandalizzerà i compagni arruolando
i criminali nell'NKVD; ma la verità è che li aveva sempre utilizzati».
Condannato al confino in Siberia, di lí a breve Stalin fuggí con dei documenti falsi
riuscendo a fare ritorno a Tiflis in tempo per i fatti rivoluzionari del 1905, anno a cui risale il
suo primo vero contatto con i bolscevichi. Lenin lo apprezzava come capobanda in grado di procurare
contanti ai bisognosi bolscevichi che, di fronte all'ondata repressiva scatenata dalla
polizia dopo il 1905, si videro costretti per la maggior parte a fuggire all'estero o a darsi
alla macchia.
«Stalin», scrive Montefiore, «diventò l'efficiente padrino
di una struttura per la raccolta di fondi, piccola ma redditizia, che in realtà assomigliava
a una famiglia mafiosa di discreto successo: praticava estorsioni e taglieggiamenti, falsificava
banconote, compiva rapine e atti di pirateria, e gestiva il racket della protezione (oltre a operare
nel campo dell'agitazione politica e del giornalismo)».
Stalin organizzò anche rapimenti di figli e altri congiunti di ricchi uomini d'affari,
tra cui probabilmente il barone del petrolio di Baku Musa Nageev, due volte rapito e altrettante
restituito alla famiglia in cambio di un grosso riscatto la prima al tempo in cui Stalin risiedeva
in città.
Fu certamente Stalin l'ideatore dello spettacolare assalto alla banca nazionale di
Tiflis, perpetrato nel giugno del 1907 da Kamo e dalla sua banda. Il libro di Montefiore si apre con
un'elettrizzante descrizione dell'episodio, in cui i rapinatori uccisero a colpi
di pistola le guardie e gettarono bombe sotto le vetture a cavalli per poi darsi alla fuga con pesanti
sacchi pieni di rubli per un valore di circa 3,4 milioni di dollari attuali sufficienti a
foraggiare i bolscevichi per diversi anni.
Alla fine, nel marzo del 1908, la polizia riuscí a stanarlo. Stalin fu condannato all'esilio
nell'estremo nord. Ma presto scappò di nuovo. Per i cinque anni seguenti, visse alla
macchia, adottando vari travestimenti e uccidendo chiunque temeva potesse denunciarlo alla
polizia. C'è forse un nesso fra un tale incrudelimento e la morte dell'amatissima
consorte nel 1907 (cosí come sarebbe rimasto sconvolto dal suicidio della seconda moglie
NadeÏda Allilueva nel 1932, negli anni precedenti il Grande Terrore). In una delle scene
più memorabili del libro, Montefiore lo descrive disperato gettarsi sulla tomba dell'amata,
e confidare a un amico, durante il funerale: «Questa creatura aveva ammorbidito il mio cuore
di pietra. Adesso è morta e con lei sono morti per me gli ultimi sprazzi di calore umano».
Abbandonato il figlio, per i dieci anni successivi Stalin visse all'insegna dell'amoralità
e della promiscuità sessuale (non insolita tra i rivoluzionari, convinti che famiglia
e legami affettivi intralciassero il compito di servire adeguatamente gli interessi della rivoluzione).
Le preferenze di Stalin, osserva Montefiore, andavano alle «malleabili giovinette o le
prosperose contadine, che gli si sottomettevano docilmente».
Generò perlomeno due figli illegittimi, per nessuno dei quali manifestò mai il
benché minimo interesse.
La regolarità con cui Stalin riuscí a evadere dall'esilio penale (Montefiore
calcola nove evasioni su nove arresti e quattro brevi periodi di detenzione) ha alimentato l'ipotesi
che potesse essere un agente della polizia zarista. Il movimento rivoluzionario
pullulava di informatori e di spie della polizia di cui la più celebre fu Roman Malinovskij,
membro del Comitato Centrale del partito bolscevico nonché uno dei suoi due deputati alla
Duma, che ingannò Lenin fino al 1917.
Montefiore respinge in modo convincente le accuse di doppiogiochismo indirizzate a Stalin,
pur ammettendo la possibilità che si servisse di qualche amicizia nella polizia per ottenere
informazioni su retate e possibili informatori (senza dubbio in cambio di soffiate su quei compagni
di cui diffidava e di cui la polizia poteva sbarazzarlo). Un simile mercimonio era pratica corrente.
La polizia caucasica era notoriamente venale. I suoi funzionari accettavano regolarmente bustarelle
per rilasciare prigionieri, e i prezzi erano ben noti. Ma a tutt'oggi non sono emerse prove
decisive che Stalin lavorasse per la polizia. Se riuscí a evadere con tanta facilità
dal confino, fu probabilmente per l'inefficienza e la corruzione della polizia zarista.
Se mai, in realtà, la sua posizione di "conciliatore" (vale a dire il suo
favorire un avvicinamento tra bolscevichi e menscevichi) lo rendeva figura poco gradita alla
polizia, che cercava invece di alimentare la reciproca ostilità fra le due ali del partito
socialdemocratico onde scongiurarne un rafforzamento. Benché Montefiore non tenti di
spiegarla, la posizione conciliatoria di Stalin aveva senza dubbio molto a che fare con la necessità
pratica della cooperazione con l'ala menscevica all'interno del movimento clandestino,
specie nelle province, dove tipografie, depositi di munizioni e altri strumenti essenziali della
rivoluzione erano difficili da trovare. Per Montefiore, le idee politiche di Stalin non meritano
molta attenzione: il suo antieroe non è un pensatore ma un teppista. La sua principale pubblicazione,
Il marxismo e la questione nazionale (1913), con la quale rivendicò
la sua modesta reputazione di teorico (e primo testo importante firmato con lo pseudonimo di "Stalin"),
merita appena una nota in calce, in cui Montefiore fornisce una breve analisi dei princípi
centralizzatori del pamphlet gli stessi che avrebbe adottato in veste di commissario sovietico
per le nazionalità, sovrintendendo alla formazione dell'Unione Sovietica nel
1923.
La linea di Stalin ne Il marxismo e la questione nazionale rinnegava l'antico
nazionalismo georgiano e anche la posizione assunta nel 1905, quando aveva appoggiato l'idea
di un partito socialdemocratico georgiano separato da quello russo. Non è dato sapere a che
punto cessasse di schierarsi dalla parte dei georgiani, né quanto del georgiano "Koba"
continuasse ad albergare in seno allo slavo "Stalin" (che in russo significa all'incirca
"Uomo d'Acciaio"). Quel che è certo è che l'influenza ideologica
di Lenin il suo rigido centralismo e l'ostilità verso tendenze separatiste
di qualsiasi genere ne soppiantò gradualmente il senso di identità nazionale.
Dal canto suo, Montefiore ha sicuramente ragione quando afferma che l'ultimo arresto
di Stalin e i quattro anni di esilio in Siberia, fra il 1913 e il 1917, contribuirono «a russificarlo».
Dimenticato dai suoi compagni di San Pietroburgo, Stalin visse in una catapecchia sul fiume Enisej,
poco sotto il circolo polare artico. Ebbe una relazione con un'orfana di tredici anni, che
gli diede un figlio, e divenne un abile cacciatore: volpi, renne e uccelli erano prede privilegiate
durante le sue battute di caccia in compagnia di membri delle locali comunità tungusi.
Come osserva Montefiore, il desolato inverno siberiano e la solitaria esistenza dell'esilio
lasciarono il segno sul futuro dittatore: «Forse il gelo siberiano estirpò in lui una
parte degli esotismi georgiani. Portò con sé al Cremlino l'abitudine a contare
sulle proprie forze e stare in guardia, i rigori e la solitudine dell'inverno siberiano».
3.
Lo stile cospiratorio di Stalin non era adatto alla politica "alla luce del sole"
della nuova democrazia russa del 1917. Liberato dall'esilio siberiano nel marzo di quell'anno,
Stalin divenne un'importante figura dietro le quinte dello scenario politico e di partito
della rivoluzionaria Pietrogrado (come era stata ribattezzata San Pietroburgo). Lavorò
a stretto contatto con Lenin nel Comitato Centrale bolscevico, diresse l'organo del partito,
la Pravda, e rappresentò i bolscevichi nell'esecutivo sovietico. Come ammetteva
lo stesso Trockij, Stalin aveva «un vero talento per convincere i dirigenti di medio rango,
specialmente i provinciali», talento destinato a rivelarsi più efficace della brillante
oratoria pubblica di Trockij una volta che il partito ebbe imposto la sua dittatura.
La vera formazione di Stalin fu il periodo della guerra civile, fra il 1918 e il 1921, e la lotta
per la successione scatenatasi dopo la morte di Lenin nel 1924. Montefiore chiude il suo volume
all'ottobre del '17. Il suo libro precedente, Gli uomini di Stalin, inizia,
dopo un breve prologo, nel 1932. Un terzo volume a coprire gli anni intercorrenti sarebbe una giunta
gradita, se si pensa che molte delle consuetudini e degli atteggiamenti che Montefiore individua
negli anni di clandestinità dovevano assolvere un proprio ruolo nell'ascesa del
dittatore al potere dopo il 1917.
Durante la guerra civile, Stalin ricoprí gran quantità di incarichi amministrativi
relativamente prosaici fu commissario alle Nazionalità, commissario del Rabkrin
(l'Ispettorato degli operai e dei contadini), membro del Consiglio militare rivoluzionario,
del Politburo, dell'Orgburo, nonché presidente della Segreteria del partito
col risultato di guadagnarsi in breve tempo reputazione di modesta e industriosa mediocrità.
Tutti i dirigenti del partito (e nessuno meno di Lenin) fecero l'errore di sottovalutare
la potenziale forza di Stalin, e la sua ambizione a farla valere, quale risultante del potere clientelistico
da lui accumulato in virtù di tutte queste cariche. Chiave della crescente influenza di Stalin
fu il controllo esercitato sull'apparato del partito nelle province. Quale presidente
della Segreteria e unico membro del Politburo presente nell'Orgburo, che deteneva il controllo
sulle nomine del partito, egli era in grado di promuovere gli amici e sbarazzarsi dei nemici.
Solo nel 1922, anno in cui Stalin fu nominato primo segretario generale del partito, Orgburo
e Segreteria nominarono oltre diecimila funzionari provinciali, la maggior parte dei quali su
sua personale segnalazione: ne sarebbero stati i principali sostenitori durante la lotta di potere
contro Trockij. Al pari di Stalin, essi erano perlopiù di umili origini provinciali. Diffidenti
verso gli intellettuali cosmopoliti (e dall'aria giudaica) come Trockij, si sentivano
ben più inclini ad aderire, in campo ideologico, alle semplici invocazioni staliniane all'unità
proletaria e alla disciplina bolscevica.
Gran parte dei più fedeli alleati politici di Stalin era stata con lui fin dai primi anni.
Grigorij ("Sergo") OrdÏonikidze (che sarebbe divenuto suo commissario all'Industria
pesante), faceva parte della banda di Kamo a Tiflis. Kliment Voro?ilov (futuro commissario alla
Difesa) era un compare di Stalin fin dal 1906. Andrej Vy?inskij (suo procuratore durante il Grande
Terrore) faceva parte della sua cricca mafiosa a Baku. V.M. Molotov, il più fidato tra i suoi
seguaci nonché quello di più lungo corso (tra l'altro, suo commissario agli Esteri),
conobbe il futuro dittatore nel 1912. Feliks DzerÏinskij, fondatore della polizia politica
bolscevica, era suo amico fin dal 1917. Stalin fece presto a riconoscere l'importanza della
polizia in ambito rivoluzionario. Dopo tutto, ci aveva avuto a che fare durante tutta la sua carriera
politica in Georgia.
Stalin portò con sé al Cremlino la vendicativa politica da clan tipica del Caucaso.
Non dimenticò mai i nemici e impiegò il suo potere non solo per sbarazzarsene, ma anche
per annientare le loro famiglie. Diffidava notoriamente fino alla paranoia di compagni e subordinati,
eccezion fatta inalterabile retaggio delle sue attività banditesche di
quelli la cui fedeltà aveva passato la prova del fuoco. Una volta instaurata la propria
dittatura, Stalin ebbe bisogno di continue battaglie e di sempre rinnovate campagne terroristiche
per sottoporre i propri seguaci a nuove verifiche.
Come dimostra Montefiore nel suo studio magistrale, spesso con raccapriccianti dettagli,
gli anni di clandestinità di Stalin e la ricorrente frequenza di spie della polizia all'interno
del movimento bolscevico, culminante nello smascheramento di Malinovskij nel 1917, insegnarono
al dittatore sovietico a sospettare traditori ovunque. Nelle sue periodiche stragi, imparò
ad andare sul sicuro, a uccidere più potenziali nemici dello stretto necessario quale misura
cautelativa secondo la razionalizzazione che del Grande Terrore avrebbe dato in seguito.
«Come il fantasma di Banquo», scrive Montefiore, «ha infestato la storia sovietica».
«Se Malinovskij aveva potuto rivelarsi un traditore, perché non i marescialli
sovietici, perché non l'intero Stato Maggiore, perché non Zinov'ev, Kamenev,
Bucharin e la maggioranza dei membri del Comitato Centrale, tutti liquidati come spie negli anni
'30 su ordine di Stalin?»
(Traduzione di Alessio Catania)
ORLANDO FIGES è professore di Storia al Birkbeck College di Londra. Il suo ultimo libro
è Sospetto e silenzio. Vite private nella Russia di Stalin (Mondadori, 2009).
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