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Isaiah Berlin, l'esploratore
NICHOLAS D. KRISTOF
Sir Isaiah Berlin non è di certo uno scrittore difficile, oscuro o astruso. Al contrario
è eccezionalmente utile per aiutarci a risolvere i complessi quesiti di stampo morale che
destano perplessità in chiunque sia troppo ragionevole per essere un ideologo. Nessuno
può battere Berlin nel ruolo di guida sull'insidioso terreno che dovremo percorrere
nel XXI secolo.
È stata una figura inusuale, tra i grandi filosofi, perché negava di far parte di
questa categoria. All'inizio della sua carriera ebbe un colloquio, destinato a cambiargli
la vita, con Henry Maurice Sheffer, il grande logico di Harvard, il quale sosteneva che i filosofi
continuano a discutere delle stesse idee da migliaia di anni senza di fatto aggiungere molto di
più alla massa delle conoscenze umane. Questa affermazione appariva giusta a Berlin. Proprio
tale mancanza di un possibile progredire lo aveva portato, come disse a me e ad altri (con un tono
quasi lugubre, in cui forse si sentiva il rimpianto), ad abbandonare la filosofia per occuparsi
della storia delle idee.
Come storico e critico Berlin è stato magistrale. Oggi è ben noto per il suo brillante
saggio Il riccio e la volpe, 1 in cui illustra le profonde contraddizioni del
genio di Tolstoj e anche per vari testi con i quali ha dato nuova vitalità a molti altri grandi
pensatori, da Machiavelli ad Alexander Herzen. In particolare a Berlin piaceva esplorare il lato
oscuro di questo campo, ovvero i lavori dei filosofi che hanno contestato l'Illuminismo
e, in qualche caso, hanno gettato le fondamenta per gli slanci totalitaristi del mondo moderno.
Molti ricordano Berlin anche per la sua arguzia, il suo fascino e le sue acute intuizioni nel
valutare persone assai note. Sir Winston Churchill, abbagliato dai suoi spumeggianti resoconti
da Washington (dove, durante la seconda guerra mondiale, operava presso l'ambasciata britannica),
voleva incontrarlo ma, per errore, invitò a pranzo, al suo posto, Irving Berlin, con imbarazzo
di entrambi quando nella conversazione arrivarono a parlare del lavoro di Berlin. È stato
recentemente pubblicato un nuovo libro che raccoglie le lettere di Isaiah Berlin scritte tra il
1946 e il 1960: vivaci e talora pungenti come sono, questi testi hanno scatenato, in Inghilterra,
una vera tempesta letteraria.2 Va poi ricordata, di Berlin, la grande generosità,
anzi prodigalità, che spesso si manifestava nei confronti dei giovani. Quando ero studente
di legge a Oxford, inevitabilmente stufo di contratti, normative e procedure, decisi di andarlo
a trovare. Era uno dei più famosi eruditi d'Europa, ma riuscí comunque a trovare
un po' di tempo per me e i miei compagni, parlando cordialmente con noi dei problemi che gli
avevamo esposto. Come scrisse una volta Leon Wieseltier, faceva sí che i lettori apprezzassero
e gustassero «il carisma dell'intelletto».
Eppure, a centun'anni dalla sua nascita (nato nel 1909, Berlin è morto nel 1997),
il suo lascito più importante mi sembra sia costituito dai contributi dati nel campo che sosteneva
di aver abbandonato, quello della filosofia. È ovvio che la sua dichiarazione su quella rinuncia
era, in effetti, falsa. A Bernard Williams, anch'egli filosofo di notevole statura, e inglese,
si attribuisce, in The Book of Isaiah, un libro pubblicato come tributo per il centenario
della nascita, questa affermazione: «Non penso che [Berlin] abbia mai abbandonato davvero
la filosofia: ha semplicemente abbandonato ciò che riteneva fosse ormai diventata la filosofia».3
Negli anni in cui Berlin usciva dall'adolescenza diventando adulto, la filosofia,
per la maggior parte, era considerata rispettabile soltanto se affrontava, in termini analitici,
questioni astratte, mentre in lui era tanto forte l'interesse per la politica e le tribolazioni
dell'umanità da non permettergli di trascorrere la sua vita in un angolo del mondo
accademico. Abbandonò dunque la filosofia come la si intendeva e praticava allora, continuando
a indagare sul problema decisamente più concreto di come, per fare politica, si debbano acquisire
solide capacità di giudizio morale. Berlin è il mio eroe intellettuale, e non riesco
a trovare un altro pensatore che sia altrettanto utile, anche sul piano pratico, per insegnarci
a lottare, nella vita del XXI secolo, con gli obblighi morali cui non possiamo sottrarci.
Qual è esattamente l'eredità lasciataci da Berlin, nel campo della filosofia?
Per me si tratta dell'importanza da lui conferita al «pluralismo dei valori»,
un concetto che delinea una rotta non ideologica, ma pragmatica, per la navigazione in un mondo
dominato dal disordine.
Berlin utilizza l'espressione «pluralismo dei valori» nel suo importante
saggio del 1958, "Due concetti di libertà",4 basato sul testo di
una prolusione tenuta a Oxford. In questo scritto veniva tracciata la distinzione tra «libertà
negativa» (libertà da ogni impedimento o restrizione: il tipo di libertà
la cui casistica è indicata nel Bill of Rights statunitense del 1789, ma già nel Bill
of Rights inglese del 1689), e «libertà positiva» (intesa come intervento
che favorisce la realizzazione delle potenzialità di una persona: il tipo di libertà
promessa nella sua forma più estrema e ingannevole dai regimi comunisti). Isaiah Berlin
riconosceva la necessità di entrambi i tipi di libertà, sempre sostenendo che
una limitazione della libertà negativa deve essere chiaramente rilevata e valutata come
tale. Il saggio però metteva soprattutto in guardia contro i grandi sistemi onnicomprensivi,
nei quali ogni cosa sembra incastrarsi con le altre troppo ordinatamente. Berlin è scettico
nei confronti di chiunque appaia eccessivamente concentrato su una sola verità o su un
solo valore superiore a tutti gli altri. Come diceva bene Gerry Cohen, suo amico e collega all'All
Souls College di Oxford: «Era profondamente contrario a un controllo totale da parte dello
stato; pensava che l'idea della pianificazione socialista fosse un'illusione, ma
con passione si è battuto contro il thatcherismo e l'incontrollato dominio del libero
mercato. Sapeva che esso è stato e può essere distruttivo per la vita stessa della gente».
Sembra che nell'uomo ci sia una profonda tendenza a cercare una risposta incontestabilmente
vera, a cercare cioè l'equivalente, sul piano etico, di ciò che può essere
in fisica una teoria unificata dei campi. Per Kant esiste l'imperativo categorico; per gli
utilitaristi, il raggiungimento della felicità. «Non è necessario sottolineare
il fatto che il monismo e l'adesione a un criterio unico si siano sempre dimostrati fonte di
profonda soddisfazione sia per l'intelletto che per le emozioni»,5 rileva
Berlin, ma ci mette in guardia contro questa realtà. E, poco oltre, conclude "Due
concetti di libertà" con uno dei passaggi più eleganti ed efficaci di tutti
gli scritti che io conosca, aventi come argomento ideali e idee: «Può darsi che l'ideale
della libertà di scegliere i propri fini senza pretendere che abbiano validità
eterna, e il pluralismo dei valori che esso comporta, siano soltanto il frutto tradivo (sic)
della nostra civiltà capitalista in declino: un ideale ignoto alle epoche passate più
lontane e alle società primitive, un ideale che forse sarà osservato con curiosità
o persino simpatia, ma con poca comprensione, dalla posterità. È possibile; ma non
mi pare che se ne possano derivare conclusioni scettiche. I princípi non sono meno sacri solo
perché la loro durata non può essere garantita».6
In effetti, lo stesso desiderio di avere una garanzia circa l'eternità e la solidità
dei nostri ideali in un qualche paradiso oggettivo non è forse altro che un intenso e struggente
bisogno delle certezze dell'infanzia o dei valori assoluti del nostro primitivo passato.
Joseph Schumpeter, ammirevole scrittore oltre che grande economista del XX secolo, diceva: «Tutto
questo è talmente ovvio, che non dovrebbe non dico scandalizzare me nemmeno stupire, perché
non ha nessun rapporto col fervore o con la dignità del credo democratico in una situazione
data. Riconoscere la validità relativa delle proprie convinzioni, e tuttavia combattere
inflessibilmente per esse, è ciò che distingue l'uomo civile dal barbaro». 7
L'impulso a chiedere di più dipende forse da un profondo e inguaribile bisogno,
ma permettere che questo determini il proprio agire è sintomo di una ugualmente profonda,
ma più pericolosa, immaturità morale e politica.
Il passo che ho citato mi toglie sempre il fiato, quando lo leggo. In parte perché mi richiama
alla mente il giudizio dato, nella sua poesia "Il secondo avvento", da William Butler
Yeats: «I migliori difettano d'ogni convinzione, i peggiori/ sono colmi d'appassionata
intensità».8 A tutti noi è accaduto di imbattersi in esempi di persone
intelligenti e ben informate, le quali sono però cosí tarpate e rese insicure dall'abitudine
alla tolleranza e a sfumare, a smussare gli spigoli, che trovano scuse per ciò che è sbagliato
e diventano inefficaci come agenti di qualsiasi cambiamento. Berlin sosteneva che ciascuno di
noi deve accettare la possibilità di essere in errore, e deve riconoscere le complessità
di una certa situazione, senza permettere che il riconoscimento delle possibili sfumature finisca
per castrare la capacità personale di esprimere solidi giudizi morali.
«Non sono un relativista», notava nel libro Il potere delle idee (in cui
sono stati raccolti vari suoi saggi), «non dico "A me il caffè piace col latte e
a te senza latte; io sono favorevole alla gentilezza e tu preferisci i campi di concentramento"». 9
Potrebbe essere difficile individuare i confini tra quanto può essere tollerato
a denti stretti e quanto è moralmente inaccettabile, ma ciò non significa che esso non
esista.
Berlin ha continuato a indagare su queste idee per il resto della sua vita e si avverte l'eco
di tali ricerche nelle sue opere, anche in quelle il cui evidente argomento è qualcosa di totalmente
diverso. Nell'ultimo suo saggio, intitolato "Il mio itinerario intellettuale",
con cui si apre Il potere delle idee, Berlin ha scritto di come tante grandi menti abbiano
creduto nell'esistenza di risposte chiare e sicure che aspettano soltanto di essere scoperte:
«Questa è una philosophia perennis ciò che gli uomini e i pensatori
hanno creduto dai presocratici fino a tutti i riformatori e rivoluzionari della nostra epoca.
È la credenza centrale su cui il pensiero umano ha poggiato per due millenni. Se infatti non
esistono risposte vere alle domande, come sarà mai possibile raggiungere la conoscenza,
in un qualunque ambito? Un'epoca dopo l'altra, è stato questo il nocciolo del
pensiero razionale, e invero spirituale, europeo. Non conta che gli uomini possano essere tanto
diversi, che le culture siano diverse, e con esse le concezioni morali e politiche; non conta che
ci sia un'immensa varietà di dottrine, religioni, morali, idee da qualche
parte deve nonostante tutto esserci una risposta vera alle domande più profonde che preoccupano
l'umanità. Non so perché io abbia sempre guardato con scetticismo a questa
credenza pressoché universale, ma è cosí. Può essere una questione di temperamento,
ma è un fatto». 10
Il dubbio di Berlin circa i grandi schemi utopistici della storia del pensiero deve forse qualcosa
alla sua eredità culturale ebraica e dell'Europa orientale. Nato a Riga, in Lettonia,
nel 1909, si trasferí a San Pietroburgo quando aveva sei anni; fu testimone di alcune delle
violenze della rivoluzione bolscevica; emigrò, con la famiglia, in Inghilterra nel 1921
e qui si iscrisse alla St. Paul's School, poi a Oxford. I parenti che erano rimasti a Riga furono
massacrati nella Shoah. Berlin provava disgusto per ogni forma di totalitarismo. Scriveva infatti:
«La maggioranza dei rivoluzionari ritiene, celatamente o apertamente, che per creare il
mondo ideale sia necessario rompere le uova, senza di che non si può ottenere la frittata.
Non c'è dubbio che di uova ne siano state rotte tante (mai con maggiore violenza o in maniera
più generalizzata che nella nostra epoca), ma la frittata rimane un obiettivo remoto, e anzi
recede in una lontananza infinita. Siamo davanti a uno dei corollari del monismo senza freni, come
io preferisco chiamarlo qualcuno parla di fanatismo, ma il monismo è alla radice di
tutti gli estremismi».11
Berlin ha riunito molte delle sue idee sul pluralismo dei valori nel libro Il legno storto
dell'umanità, pubblicato nel 1990.12 Il titolo deriva da una delle
citazioni che preferiva, presa da una ben nota frase di Kant: «Da un legno cosí storto
come quello con cui è fatto l'uomo non è possibile squadrar tutto diritto». 13
Questo credere che l'uomo sia per natura intricato e pieno di complesse irregolarità
si aggiungeva al dubbio sull'esistenza di soluzioni grandiose, ovunque applicabili ed
efficaci, portandolo a preferire procedimenti ad hoc, basati su tentativi e sempre specifici.
In Cina, dopo il fallimento dei progetti utopistici del presidente Mao, Deng Xiaoping era solito
descrivere la propria politica come mozhe shitou guo hew, frase che approssimativamente
può essere tradotta con «guadare il fiume dopo aver provato la solidità delle
pietre con il piede». Un'immagine suggestiva, che Berlin avrebbe approvato.
Un tale approccio è in realtà coerente con buona parte della grande letteratura
e con le caratteristiche "da volpe" che Berlin riconosceva nel genio di Tolstoj, anche
se, come subito sottolineava, Tolstoj stesso «credeva soltanto in un tutto unico, immenso
ma unitario. Nessuno scrittore ha mai palesato tali facoltà di introspezione nella varietà
della vita: le differenze, i contrasti, gli urti tra persone, cose e situazioni, ciascuno colto
nella sua assoluta unicità ed espresso con una straordinaria immediatezza e una rara precisione
di immagini concrete. Nessuno ha mai superato Tolstoj nel comunicare la sfumatura specifica,
la natura esatta di un sentimento il grado della sua "oscillazione", il flusso
e riflusso, le minime variazioni (ciò che Turgenev derideva come un trucco puro e semplice)
, la trama interna ed esterna e il "tocco" di uno sguardo, di un pensiero, di un
moto subitaneo, come anche di una situazione particolare, di tutto un periodo, della vita di individui,
famiglie, comunità, intere nazioni».14
Nelle pagine di Il legno storto dell'umanità, Berlin ipotizza che qualunque
speranza in una Risposta Unica sia un miraggio e che i valori da noi maggiormente stimati e ricercati
siano spesso incompatibili e incommensurabili. Scrive infatti: «Libertà e uguaglianza
sono tra gli scopi primari perseguiti dagli esseri umani per secoli; ma libertà totale
per i lupi significa morte per gli agnelli; una totale libertà dei potenti, dei capaci,
non è compatibile col diritto che anche i deboli e i meno capaci hanno a una vita decente». 15
Ne risulta che gli esseri umani devono lottare per mettere d'accordo situazioni prive
di una precisa e univoca risoluzione: «Alcuni dei Grandi Beni non possono vivere insieme.
Questa è una verità concettuale. Noi siamo condannati a scegliere, e ogni scelta
può comportare una perdita irreparabile». 16
Come dobbiamo scegliere? Su quale base dobbiamo decidere di trovare un equilibrio, una compensazione
reciproca? Berlin sembra credere che qualora riuscissimo a liberarci dalla preoccupazione circa
i fini supremi del nostro agire, sarebbe più facile prendere una decisione per il passo successivo.
In parte, forse, si tratta di cercare a tastoni, come nella metafora di Deng Xiaoping, la pietra
successiva, e sentire quale sembra essere stabile, onesta perché equilibrata, insomma
giusta. Ciò comporta l'ammettere che non ci sia un solo posto «migliore di tutti»,
per guadare il fiume, e che altri potrebbero preferire altre pietre; la tolleranza non può
tuttavia estendersi al capo che cerca di attraversare il fiume costruendo un ponte di cadaveri.
Berlin stesso si comportava come un liberale del XIX secolo, che teneva in gran conto le libertà
personali, al tempo stesso però credendo che quella «varietà» sia parte
integrante dell'esistenza dell'uomo. E comunque desiderava ragionare e indagare,
con prudenza, su quali valori potessero essere largamente condivisi. In una lettera a una studiosa
di filosofia polacca, pubblicata qualche anno fa su questa rivista, scriveva: «Io ritengo
che, se vogliamo dare un qualche significato al concetto di natura umana, debbano esistere dei
punti in comune tra gli esseri umani. A esempio, credo che si diano effettivamente certi bisogni
fondamentali di cibo, di riparo, di sicurezza e, se si tiene dietro a Herder, di far parte
di un gruppo ascrivibili a qualunque individuo in possesso dei requisiti di essere umano.
A queste caratteristiche di base si potrebbe aggiungere il bisogno di un minimo di libertà,
della possibilità di perseguire la felicità o di dare libera espressione alle
proprie inclinazioni personali, di creazione (per quanto elementare), d'amore, di culto
(come sostengono i pensatori religiosi), di comunicazione, e di alcuni modi di concepire e descrivere
se stessi (magari in forme altamente simboliche e mitologiche) e il proprio rapporto con l'ambiente,
naturale e umano, in cui si vive … Il bisogno di cibo è universale, ma variano: il modo
di soddisfarlo, i cibi desiderati, il modo di procurarseli; lo stesso vale per tutti gli altri bisogni
fondamentali».17
Tutto sommato si tratta di un atteggiamento antideologico, tutt'altro che rigido, anzi
assai sfumato: è una filosofia per adulti che vivono in un mondo pieno di incertezze.
La visione del mondo di Berlin implica che siamo destinati a brancolare lungo la nostra strada,
accettando costantemente compromessi, cambiando le priorità, abituandoci a convivere
con le contraddizioni, tentando di ridurre le sofferenze, ove si riesca a farlo. Uno sforzo dunque,
un impegno per vivere una vita migliore, non per salvare il mondo. «Potrà sembrare
una risposta molto piatta, terra terra, non la risposta che vorrebbero i giovani idealisti, non
la bandiera per cui sarebbero pronti a combattere e a soffrire, se necessario, in nome di una società
nuova e più nobile»,18 ammetteva Berlin. Tuttavia, almeno per me, essa ha
la virtù di farmi star bene. Abbiamo visto tutti gli insuccessi di chi ha superato i limiti,
sia a sinistra sia a destra, con grandiose strutture ideologiche, e forse è davvero il momento
di valerci di una guida più modesta, quando cerchiamo semplicemente di muoverci a tentoni,
passo passo, facendo, mentre procediamo sulla nostra strada, il minor danno possibile e tutto
il meglio che riusciamo a compiere.
(Traduzione di Giorgio P. Panini)
1 . I. Berlin, Il riccio e la volpe e altri saggi, a cura di H. Hardy, Milano,
Adelphi, 1986.
2 . Id., Enlightening: Letters 1946-1960, a cura di H. Hardy e J. Holmes,
Londra, Random House, 2009. La precedente raccolta di lettere di Berlin (Flourishing: Letters
1928-1946, a cura di H. Hardy, Londra, Chatto & Windus, 2004) è stata tradotta in
italiano con il titolo A gonfie vele. Lettere 1928-1946 (Milano, Adelphi, 2008).
. H. Hardy (a cura di), The Book of Isaiah: Personal Impressions of Isaiah Berlin,
Woodbridge, The Boydell Press, 2009.
4 . I Berlin, "Due concetti di libertà", in Libertà,
a cura di H. Hardy, Milano, Feltrinelli, 2005.
5 . Ivi, p. 220.
6 . Ivi, p. 222.
7 . J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano, ETAS,
1977, p. 323.
8 . W.B. Yeats, "Il secondo avvento", in L'opera poetica,
Milano, Mondadori, 2005, p. 575.
9 . I. Berlin, Il potere delle idee, a cura di H. Hardy, Milano, Adelphi, 2003,
p. 37.
10 . Ivi, pp. 30-31.
11 . Ivi, pp. 41-42.
12 . Id., Il legno storto dell'umanità. Capitoli di storia delle
idee, a cura di H. Hardy, Milano, Adelphi, 2004.
13 . I. Kant, Idea per una storia universale, in Antologia di scritti pedagogici,
a cura di G. Formizzi, Verona, Il Segno dei Gabrielli Editori, 2004, p. 189.
14 . I. Berlin, Il riccio e la volpe, cit., pp. 112-13.
15 . Id., "La ricerca dell'ideale", in Il legno storto dell'umanità,
cit., p. 33.
16 . Ivi, p. 34.
17 . Id., "Lettera sulla natura umana", la Rivista dei Libri,
settembre 2005, pp. 4-5.
18 . Id., "La ricerca dell'ideale", cit., p. 40.
NICHOLAS D. KRISTOF, editorialista del New York Times, è coautore, insieme
con la moglie Sheryl WuDunn, di Half the Sky: Turning Oppression into Opportunity for Women
Worldwide (Knopf, 2009).
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