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Nel marsupio del canguro
TIM PARKS
GEOFF DYER, Amore a Venezia, Morte a Varanasi, trad. di Giovanna Granato, Torino,
Einaudi, pp. 324, €18,50
In una calda sera d'estate del 1999, nella città di Reggio Emilia, lo scrittore
inglese Geoff Dyer dichiarò davanti a un folto pubblico di preferire di gran lunga l'Italia
all'Inghilterra: gli italiani, disse, sono esuberanti, liberi, cordiali e amano la vita,
mentre gli inglesi sono noiosi, conformisti, scontrosi, mesti. A suo parere, tuttavia, l'invenzione
dei rave parties e la scoperta dell'Ecstasy lasciavano scorgere un barlume di speranza
e suggerivano la possibilità che molti inglesi si stessero aprendo e stessero imparando
ad amare la vita diventando più simili agli italiani. I presenti applaudirono.
Seduto accanto a Dyer sul palco, io stupidamente lo contestai. Avendo trascorso tutta la mia
vita da adulto in Italia, sapevo che questo paese è soffocato dal conformismo cattolico;
inoltre, la vocazione inglese alla bisboccia non era certo nuova: già agli inizi del XIX
secolo, a mezzanotte di un qualsiasi sabato, quasi la metà degli abitanti di Manchester
versava in uno stato di ebbrezza. Esistono degli studi che lo confermano.
Rivolgendomi un sorriso benevolo, Dyer non si prese nemmeno la briga di replicare, e solo in
seguito mi resi conto di averlo frainteso. Estraneo all'analisi antropologica, egli aveva
semplicemente voluto stabilire una dicotomia tra spensierata creatività ed estenuante
conformismo, palesando al tempo stesso la propria parzialità per uno dei due fronti. Dyer
però aveva anche fatto mostra di una certa irriverenza, obbedendo alle norme della sua personale
guerra contro la banalità. Il pubblico era ammaliato, si divertiva… Per un vecchio
pragmatico come me, era difficile sapere come rispondere.
All'inizio di Amore a Venezia, la prima parte del nuovo libro di Geoff Dyer, l'alter
ego dell'autore entra in un'edicola, dove viene assistito da una ragazza indiana che
lo accoglie con «un sorriso luminoso, insolito nel suo campo». Jeff paragona immediatamente
l'adolescente al padre burbero di lei, «che pur parlando male l'inglese, si era
adattato cosí bene alla vita britannica da sembrare incazzato proprio come se i suoi antenati
fossero arrivati insieme ai normanni». Questo contrasto tra vitalità e noiosa negatività
è al nocciolo dell'opera di Dyer.
In Morte a Varanasi, la seconda parte del libro, il narratore ricorda che il proprio
padre, un ansioso inglese, odiava «spendere soldi, perciò le vacanze erano una specie
di tortura per lui». Quasi che questo comportamento fosse una reazione tardiva, intensificata
senz'altro dalla paura della morte, sempre presente a Varanasi, il narratore dichiara:
«Siccome questa vita quella che conducevo sull'altra sponda, a Varanasi,
nel mondo dei vivi era l'unica che avessi, l'unico vero crimine o errore era non
trarne il meglio».
Carpe diem, dunque. Ma in che modo, esattamente? Dandosi ai rave parties? All'Ecstasy?
Può davvero bastare come prescrizione l'invito a vivere «nel modo più intenso
possibile»? Entrato nell'edicola per acquistare della gomma da masticare che lo aiuti
a dissimulare l'ossessiva abitudine di parlare da solo per strada, Jeff esce invece dal negozio
con una tavoletta di cioccolata. Non sa quel che vuole. E mentre riflette ansiosamente su un libro
che avrebbe dovuto scrivere, ma non ha scritto, sembra incapace di valutare la gratificazione
immediata in rapporto al piacere che deriva dal raggiungere un obiettivo attraverso un prolungato
periodo di concentrazione. Per qualche istante, Jeff si domanda che tipo di biancheria indossi
l'affascinante ragazza indiana, ma non è sprovveduto al punto da cercare di approfittare
appieno dei sorrisi scambiati con lei. Poi, di impulso, entra in un elegante negozio di parrucchiere
per farsi tingere i capelli bianchi: cosa che non aveva mai consapevolmente desiderato fare, ma
che di fatto gli offre un sollievo immenso. Adesso può cullare la convinzione che il tempo
per vivere intensamente la vita (qualunque cosa ciò significhi) non stia per scadere.
A differenza dei romanzieri tradizionali, che costruiscono i propri personaggi tessendo
una rete di relazioni che li legano tra loro reciprocamente al fine di imbastire l'azione
drammatica, Dyer ricorre all'espediente di impostare i suoi libri in rapporto ironico con
altri (molto famosi), collocando di conseguenza se stesso in rapporto con altri scrittori (invariabilmente
grandi). In un certo senso, quindi, la tensione drammatica scaturisce dalla stessa scrittura
del libro, l'incontro tra Dyer e il suo modello, anziché dalla storia che il romanzo
narra. In Out of Sheer Rage (un saggio del 1997)1 a esempio, Dyer è alle
prese (con esiti comici) con la stesura di una biografia di D.H. Lawrence, pronto a dichiarare la
propria intensa affinità con un uomo che non avrebbe mai avuto la pazienza di compiere le
ricerche necessarie a comporre una biografia, tanto da rendere subito ovvio che tale dotta opera
non vedrà mai la luce. Out of Sheer Rage, che invece viene scritto, offre un meraviglioso
spiraglio sul personaggio di Lawrence, o su alcuni suoi particolari aspetti: l'irrequietezza,
l'impazienza e l'irritabilità insieme a un affascinante ritratto
di Dyer come persona ansiosa di provare la stessa irrequietezza e la stessa genialità,
e impaziente di tenersi lontano dalla banalità del classico studioso, della persona che
non ha vissuto. Come se ciò non bastasse, nell'opera affiorano diversi riferimenti
a Thomas Bernhard (che dedicò più di un libro all'incapacità di scrivere
un libro) e si scorge l'astuta consapevolezza che la retorica delle declamazioni vuote,
enfatiche e impotenti (solitamente dirette contro la banalità del mondo) è un tratto
che accomuna sia Bernhard che Lawrence che Dyer.
Una di queste declamazioni spesso citate dai fan di Dyer (si direbbe che il loro numero abbracci
chiunque abbia mai fatto fatica a rimanere seduto di fronte a una tastiera) è quella relativa
al suo attacco contro l'establishment accademico letterario in Out of Sheer Rage.
Dyer ha appena ricevuto in prestito il volume della Longman Critical Reader dedicato a Lawrence
e curato da Peter Widdowson: «Sentivo la rabbia montare; iniziai a sfogliare il saggio introduttivo
"Radicale indeterminazione: Lawrence postmodernista", e mi imbestialii ancora
di più. Come poteva essere accaduto? Com'era possibile che questi individui privi
di sensibilità per la letteratura fossero finiti a insegnarla, a scriverne? Avrei dovuto
mollare il libro in quel preciso momento, evitare di leggere oltre, ma non lo feci perché impormi
di smettere ha sempre l'effetto di incoraggiarmi a proseguire. Continuai quindi a osservare
questo gruppo di mezze seghe sedute in cerchio con la schiena girata al mondo affinché nessuno
possa vederli mentre si masturbano a vicenda. Oh, era troppo, era troppo stupido. Feci volare il
libro attraverso la camera, ma era troppo resistente. Ero furibondo. Pensai di cercare il numero
di Widdowson e fargli delle telefonate minatorie. Poi mi diedi un'occhiata attorno, alla
ricerca di un modo per distruggere quello spregevole, immondo volume. Per decostruirlo mi ci volle
un'intera scatola di fiammiferi, e rischiai anche di farmi male».2
Se Dyer ha da ridire sui banali uomini di cultura perennemente barricati all'interno
delle università e intenti a fingere di comprendere personaggi pieni di vitalità
come Lawrence, bisogna pure dire che "radicale indeterminazione" non sarebbe male
come descrizione dello stato mentale di qualcuno perennemente incapace di decidere se mettere
in bocca un chewing-gum o della cioccolata, se scrivere un libro o uscire a bere qualcosa. Inoltre,
"Radicale indeterminazione: un Lawrence postmoderno" non sarebbe assolutamente
fuori luogo come titolo di un saggio su Geoff Dyer, le cui opere sono al tempo stesso cosí intensamente
e deliziosamente letterarie eppure decise a sottrarsi all'assegnazione di un qualunque
genere letterario da incoraggiare proprio il tipo di analisi che egli detesta, o che si diverte
a mostrarci di detestare. Dyer è consapevole di queste contraddizioni e non del tutto convinto
delle proprie teatrali esternazioni il che, in sé, offre spunti comici. Il paradosso
rappresenta per lui un terreno congeniale, soprattutto quando sembra arrivare a sue spese.
Notiamo, a margine, che lo scrittore tralascia di farci sapere come reagí l'amico
alla distruzione del libro che gli aveva prestato.
Amore a Venezia, Morte a Varanasi in originale Jeff in Venice, Death in Varanasi
gioca sfacciatamente sull'assonanza tra Jeff e death (morte), per consegnarci
un titolo che ricorda l'Aschenbach di Thomas Mann il quale, in Morte a Venezia,
si tinge a sua volta i capelli nel tentativo (meno riuscito) di apparire più giovane. Eppure,
da questo invito a tracciare paralleli scaturisce una differenza decisiva: Thomas Mann
come pure D.H. Lawrence o Thomas Bernhard non avrebbe mai impostato dall'inizio alla
fine il proprio lavoro in un rapporto scherzoso con l'opera di qualcun altro. Questi scrittori
non volevano che il lettore dubitasse della loro enorme serietà, della loro superiorità
profetica. Sempre pronto a cedere alla frivolezza, o addirittura alla vacuità («l'occasione
di rispondere seriamente si concretizzò solo nell'impulso di avere la battuta pronta»,
si legge a un certo punto), Dyer sembra mettere in dubbio la possibilità stessa, o quantomeno
la natura, della serietà obbligandoci in questo modo a prenderlo sul serio.
Jeff è un giornalista «imbrattacarte» divorziato, sui 45 anni. Gli amici
lo considerano un allegro scroccone, collocandolo quindi praticamente agli antipodi rispetto
all'operoso e ambizioso Aschenbach. Ha un cognome improbabile: Atman; nel raffronto tra
la sua mediocre esistenza e il termine sanscrito per "anima" (ätman),
si coglie l'ennesima, caratteristica provocazione di Dyer.
Jeff è in partenza: il giornale per cui lavora lo ha infatti destinato a seguire la Biennale
di Venezia. Nella città lagunare, il suo problema di non sapere mai ciò che vuole viene
esacerbato dall'incredibile abbondanza di opere d'arte da ammirare, feste a cui partecipare,
vini da gustare, droghe da assumere: «Jeff esaminò l'invito, facendo caso al
logo dello sponsor Moët, carino e all'orario. Merda, coincideva esattamente
con la festa dell'Australia che, a sua volta, si sovrapponeva a una cena che lui aveva disdetto
non appena ricevuto l'invito australiano. Anche quello rientrava nell'esperienza
della Biennale: non essere invitati era fonte di tormento; essere invitati contribuiva alle difficoltà
logistiche di voler andare in posti dove non si desiderava affatto andare».
Quando si tratta di descrivere feste e la vita dello scroccone, Dyer non è secondo a nessuno;
i tre giorni e le tre notti che Jeff trascorre nella Serenissima, tracannando Bellini, fumando
canne e sniffando coca contengono delle descrizioni comiche che per l'atmosfera di ebbra
confusione che evocano rivaleggiano con Partenza in gruppo di Henry Green e Afternoon
Men di Anthony Powell (riaffermando ancora una volta la gloriosa tradizione inglese del fare
bisboccia).3 Nel libro appaiono anche delle belle descrizioni delle installazioni
della Biennale (per lo più «puerili»), che tradiscono sempre l'ingorda
«brama di successo» degli artisti. Jeff è attratto da «una semplice barca
di legno alla deriva in un mare ghiacciato di cocci multicolore di vetro di Murano … si andava
riempiendo a poco a poco dell'acqua che gocciolava dal soffitto. Ogni tanto cosí
di rado che Jeff si domandò se non lo stesse immaginando la barca dondolava appena.
Lui era ipnotizzato, contento di vedere quell'installazione all'inizio del giro,
prima di ritrovarsi ciucco perso, con la pancia piena e la testa tra le nuvole».
Un'opera che assume la valenza di presagio: durante il suo soggiorno a Venezia infatti,
durante la prima festa della prima sera, l'esistenza di Jeff, simile a una barca che sta lentamente
affondando, viene sconvolta dall'incontro con Laura Freeman. La bella e giovane americana
dall'emblematico cognome sembra fatta apposta per lui: arguta, irriverente, generosa
e più che pronta a sedurre e a essere sedotta. Un oggetto del desiderio complessivamente più
promettente dell'elusivo Tadzio di Aschenbach. Tra un vaporetto e l'altro, Laura
fa aspettare il suo uomo quel tanto che basta a giustificare le immancabili scene dello straniero
che va alla scoperta della città; e, quando finalmente se lo porta a letto, i loro incontri
carnali, a dispetto dei numerosi Bellini, sono protratti, frequenti e quel che più
sorprende affettuosi.
L'intesa sessuale tra loro è cosí perfetta, e i dialoghi cosí brillanti,
accurati e sapientemente cinematografici (la loro vita appare esente da momenti di banalità)
che ben presto il lettore si accorge che Laura non funge tanto da personaggio, ma piuttosto da esempio
per illustrare un argomento. (Dyer ha detto di preferire i saggi alla narrativa, ed è esattamente
questa sua vocazione didattica che lo obbliga a cercare di mimetizzarsi ricorrendo alla frivolezza.)
Laura porterà Jeff il festaiolo a desiderare di poter stare sempre con lei. Malgrado avesse
osservato, in un primo momento, che «la vita, nella sua versione migliore, consiste nel desiderio
di non tornare mai a casa», Jeff inizierà presto a desiderare che Laura diventi la
sua casa. Il mattino del suo secondo giorno a Venezia però, si imbatte in una persona che sembra
preannuciare un destino diverso.
Avendo ricevuto dalla rivista Kulchur l'incarico di intervistare la ex moglie
di un famoso artista e di ottenere da lei l'esclusiva per riprodurre un ritratto che il marito
le aveva fatto quando era all'apice della bellezza, Jeff si trova davanti una donna di oltre
cinquant'anni, «chic e noncurante», che fuma una canna insieme a lui e si distingue
per la totale mancanza di quella sgradevole smania di farsi notare che anima artisti e giornalisti.
Ecco finalmente qualcuno che non si preoccupa di non aver mai scritto un libro, una persona che basta
a se stessa.
Alla fine la donna gli mostra il disegno. Eseguito con ovvia passione, questo la mostra nuda,
con le gambe aperte e i genitali sfacciatamente esposti, ma con un'espressione sul viso che
indica «l'indifferenza più totale» rispetto allo struggente desiderio
dell'uomo che la sta ritraendo. «Bastava guardare il quadro pochi istanti per capire
che quel rapporto non sarebbe durato», osserva Jeff.
Lo stesso accade tra Jeff e Laura. I tre giorni che trascorrono insieme sono perfetti, ma intuendo
lo scarso entusiasmo di lei nel fare progetti futuri, Jeff non riesce a chiederle di più, e
commenta con rimpianto di come sia diventato «più facile leccare il culo di una persona
che chiederle quand'era possibile rivederla». Dopo che Laura è partita alla
volta dell'aeroporto, Jeff torna a un bar dove era stato con lei, e scopre che il pubblico della
Biennale ha bevuto sino all'ultima goccia tutte le sue riserve di alcol. La transizione verso
la seconda parte del romanzo espiatoria o purificatrice in cui Varanasi prende il
posto di Venezia e "morte" quello di "Jeff" è iniziata: «Erano
calati su quel bar come cavallette assetate, avevano spremuto fino all'ultima goccia di
alcol e poi si erano trasferiti altrove … L'aspetto del bar ce l'aveva ancora
ma, adesso, comunicava un senso di abbandono. L'atmosfera era mesta, l'equivalente
architettonico dei postumi di una sbronza spaventosa. Sembrava che avessero commesso un'atrocità,
una vergogna che nessuno ci teneva a ricordare ma che permeava i muri, i pavimenti e l'arredamento
tutto. Sembrava plausibilissimo che sul locale si fosse abbattuta una maledizione, che non avrebbe
mai più goduto delle altezze vertiginose degli ultimi giorni in cui l'alcol era fluito
a fiumi per poi esaurirsi, lasciando una scia di vuoto che non sarebbe mai stato possibile colmare,
un retrogusto di rovina e di inutilità».
Nella seconda parte del libro passiamo direttamente da eros a thanatos, sorvolando
su tutti quegli aspetti che compongono le normali esistenze (e che nelle opere di Dyer trovano raramente
spazio): lavoro, famiglia, abitudini, il lento consolidarsi di una vita condivisa (che Jeff e
Laura avrebbero potuto vivere se fossero rimasti insieme). Molto si è detto del ritratto
proposto a più riprese da Dyer dell'aspirante scrittore che non riesce a scrivere il
suo libro, o nemmeno a iniziarlo; tale atteggiamento però è senz'altro emblematico
di una più profonda incapacità di applicarsi seriamente a un qualsiasi progetto
di vita questo, per timore che la dedizione a un libro, a una donna o a una carriera possa precludere
altre opportunità e obbligare alla rinuncia di piaceri immediati.
Gli alter ego di Dyer sono ripetutamente attratti da individui profondamente coinvolti in
ciò che fanno; persone che non stanno cercando di soddisfare ogni proprio capriccio, ma che
non sono per questo noiose. Osservando due musicisti che suonano insieme, a esempio, Jeff trova
«difficile non invidiare la loro concentrazione». Poco dopo aver lasciato il bar che
è stato ripulito sino all'ultima goccia, Jeff si imbatte in una coppia di italiani la
cui bimbetta salta su una grande palla dalle sembianze di canguro, con tanto di marsupio. Tale immagine
di beatitudine domestica gli appare «adorabile»: ecco delle persone che abbinano
al proprio piacere un progetto a lunga scadenza. Se fosse stato possibile, «si sarebbe infilato
là dentro, nella tasca, e avrebbe saltato insieme a loro».
Oltre a presentare frequenti allusioni a Morte a Venezia di Mann, Amore a Venezia
guarda anche in avanti verso Morte a Varanasi. Una citazione iniziale tratta da
Allen Ginsberg invita a un esplicito raffronto tra le due città; Laura parla di andare a
vivere nella città indiana, mentre a una festa veneziana gli amici di Jeff citano il Buddha
e paragonano i loro calici da champagne alle ciotole usate dai rinunciatari per mendicare. Eppure,
quando all'inizio della seconda parte del libro ci imbattiamo ancora una volta in un giornalista
a cui viene chiesto di partire (alla volta di Varanasi) non troviamo alcun riferimento alla prima
parte dell'opera. È ancora Jeff Atman il narratore, o no? Si tratta della stessa storia?
Mentre visita una mostra fotografica insolitamente priva di didascalie, il narratore osserva:
«Niente ti aiutava a raccapezzarti finché, a un certo punto, quando ti eri rassegnato
all'idea, capivi che le cose su cui spesso facevi affidamento non ti servivano, che non c'era
niente da raccapezzarsi. Una certa foto non aveva nessun nesso esplicito o narrativo con quella
che le stava accanto, ma la vicinanza implicava un ordine che accresceva l'effetto di entrambe».
Lo stesso si può dire delle due metà del libro, che si richiamano a vicenda. Se il
nostro narratore non è Jeff, è però qualcuno che gli assomiglia molto, e dal momento
che Varanasi, con le sue pire funebri, il misticismo e la massa di cruda umanità, è
un luogo adatto per lasciarsi dietro (anziché affermare) la propria identità, la
scomparsa del nome appare come una scelta calzante. Dopo tutto, il sanscrito "ätman"
non corrisponde alla nozione cristiana dell'animo individuale, ma può significare
la consapevolezza che tutti condividiamo. Una vita può facilmente sovrapporsi a un'altra.
Si sente molto parlare di reincarnazione.
Il nostro anonimo narratore deve trattenersi in città per cinque giorni, ma decide,
senza motivo apparente, di rimanervi. Per mesi. È affascinato dalla combinazione di fermento
vitale e interminabili processioni funebri, e trascorre il tempo a esplorare ghat e templi,
a farsi trasportare su e giù per il fiume da barcaioli sempre disponibili e bisognosi (qui
si scorgono riferimenti ai rapporti tra Aschenbach e i gondolieri) e cenando e conversando con
gli altri ospiti dell'albergo.
Lo stile di Dyer si fa più meditativo, ma resta decisamente comico e personale. E quando
la narrazione rischia di prendersi troppo sul serio, Dyer è sempre pronto a buttarci dentro
una parola del gergo giovanile o un'analogia sopra le righe. È possibile, osserva a
un certo punto, «essere sinceri al cento per cento e ironici al cento per cento».
In albergo il narratore fa amicizia con due giovani viaggiatori solitari, un uomo e una donna.
E mentre questi iniziano a conoscersi e si innamorano, lui osserva con piacere il prendere forma
della loro intimità; non ha più bisogno di essere al centro dell'attenzione;
si spoglia dei piaceri, delle avversioni e persino del desiderio sessuale con la stessa facilità
con cui ci si lascia dietro degli abiti dismessi. Non rinuncia però al bere e agli stupefacenti
(questo sí che sarebbe noioso), ma gli impellenti appetiti di Amore a Venezia appartengono
ormai al passato. Né si sottomette a qualche disciplina spirituale o si dedica a uno studio
approfondito dell'intensa vita religiosa che lo circonda. Nessun eroe di Dyer che si rispetti,
per quanto evaso «dalla prigione dell'io», farebbe una cosa simile. È vero
che si rade la testa e le sopracciglia, inizia a indossare il dhoti e finirà per immergersi
nelle luride acque del Gange, ma questo non rispecchia né una forma di spiritualità
né un programma di purificazione: «Siccome sarebbe arrivato il momento di bagnarmi
nel Gange, non farlo aveva poco senso: era come evitare di fare una cosa che avevo già fatto».
Ha accettato l'idea di essere entrato in qualcosa di più grande di lui; non in quanto
Jeff Atman "l'individuo", ma come infinitesimale tassello dell'"ätman"
universale. «Mi ero tolto dall'equazione», ci spiega.
Sono pagine che contengono ottime descrizioni di viaggio e, oltre agli ovvi e ironici riferimenti
a Morte a Venezia, molte allusioni agli scritti di viaggio di Lawrence. Come se l'idea
che le nostre vite sono intercambiabili abbia offerto a Dyer un nuovo modo per stabilire un rapporto
tra sé e il grande scrittore inglese. La divertente esposizione di un ultimo episodio di autoaffermazione,
in cui il narratore, deciso a non perdere il proprio posto davanti a un Bancomat, si mette a litigare,
richiama da vicino la descrizione, in Mare e Sardegna di Lawrence, di una zuffa nel porto
di Napoli per l'acquisto dei biglietti per l'imbarco. E quando il narratore si trova
seduto faccia a faccia con un santone barbuto, cosí vicino da poter guardare fissamente uno
la diversità dell'altro, ci sovviene la straordinaria scena di Sul lago di Garda,
in cui Lawrence osserva una donna anziana intenta a filare in un villaggio sulle alture nei pressi
del lago. Al pari di Lawrence, Dyer capisce che non può esserci alcuna affinità tra
consapevolezza moderna e premoderna: «Quello che ci distingueva era che lui non era affatto
interessato alla mia [visione del mondo] che per lui non significava niente mentre
io ero curiosissimo della sua». Scrive Lawrence: «Che io avessi un mondo mio proprio,
diverso dal suo, non poteva concepirlo, né gliene importava».4
Poco propenso a cercarsi un guru, il narratore di Dyer affida l'erosione finale della
propria identità alla malattia. Mentre è impossibilitato a prendere le pillole
antimalariche a causa di un attacco di dissenteria, viene punto dalle zanzare. La febbre sale.
Benché l'ovvio richiamo vada al malandato Aschenbach di Thomas Mann, l'affinità
più profonda è ancora una volta con Lawrence. Nel 1927, con la tubercolosi giunta a uno
stadio ormai irreversibile e come desideroso di prepararsi alla morte, Lawrence si recò
in visita ad alcune tombe etrusche sotterranee nella Toscana infestata dalla malaria. A quell'esperienza
si deve il libro pubblicato postumo con il titolo di Sketches of Etruscan Places. Mentre
visita le pire funebri di Varanasi e contrae la malaria, Dyer è «a lutto per [se} stesso».
Tuttavia se, in Etruscan Places, Lawrence riesce a mettere da parte il suo stile combattivo
per aprirsi alla calma dell'accettazione, il narratore di Dyer, che ormai soffre di allucinazioni,
conclude il proprio racconto con una tirata volutamente comica e tipica di Dyer. Avendo precedentemente
scherzato con i suoi amici sull'opportunità di includere il canguro nel variegato
pantheon induista, ha un'allucinazione in cui gli sembra di assistere all'arrivo
di un enorme canguro sui ghats di Varanasi. E mentre l'animale viene salutato dalla
gente del posto e ricoperto di ghirlande, il narratore si infila nel suo marsupio, pronto finalmente
a «lasciarsi andare, appoggiat[o] al nulla».
Il romanzo o saggio termina cosí con una nota comica e surreale, tra il dissolversi
dell'ego dell'alter ego. Dyer però è lungi dal poggiare su nulla e ancor
più lontano dall'assistere al dissolversi della propria identità. La scena
ricorda il momento, alla fine di Amore a Venezia, in cui Jeff prova il desiderio di saltare
nel marsupio del canguro giocattolo, ed è densa (come tutto il libro, del resto) di riferimenti
e allusioni che offrono una potente dimostrazione del controllo esercitato da Dyer come autore,
delle sue ambizioni letterarie e del suo caratteristico equilibrio tra serietà e frivolezza.
Il nostro autore è ben lontano dal togliersi dall'equazione. Non resta che attendere
la sua prossima virtuosa rappresentazione, affinché ci sollevi dalla nostra vita mesta
e conformista.
(Traduzione di Marzia Porta)
. G. Dyer, Out of Sheer Rage: In the Shadow of D.H. Lawrence, Londra, Abacus,
1998 (1a ed. 1997).
2 . Ivi, pp. 100-1.
3 . H. Green, Partenza in gruppo, Milano, Adelphi, 2006 (ed. orig. 1939);
e A. Powell, Afternoon Men, Londra, Heinemann, 1952.
4 . D.H. Lawrence, Sul lago di Garda, Roma, Newton & Compton, 1999 (ed.
orig. 1916), p. 27.
TIM PARKS è uno scrittore inglese che vive in Italia; insegna Traduzione letteraria
allo IULM di Milano. Tra i suoi romanzi ricordiamo: Lingue di fuoco e La doppia vita
del giudice Savage, usciti nel 2005 per i tipi di Adelphi; Il silenzio di Cleaver (2006)
e Bontà (2007), pubblicati da Il Saggiatore. Il suo sito web è <www.timparks.com>.
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