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Sangue al confine
MADISON SMARTT BELL
WILLIAM T. VOLLMANN, Imperial about the region
that includes not only Imperial County in southern California but the Mexican side of the border
as well, New York, Viking, pp. 1.306, $ 55,00
ID., Imperial, fotografie, Brooklyn (NY),
PowerHouse, pp. 223, $ 55,00
ID., Europe central, trad. di Gianni Pannofino,
Milano, Mondadori, pp. 1.080, € 25,00
Nei ventidue anni trascorsi dall'uscita del suo primo
romanzo, William T. Vollmann ha pubblicato una quantità impressionante di ottimi lavori,
a tal punto che per una mente sola ormai è un'impresa padroneggiare la sua produzione
intera. Lo stesso problema si pone in miniatura con l'ultima fatica di Vollmann, Imperial
about the region that includes not only Imperial County in southern California but the Mexican
side of the border as well (letteralmente,"Imperial,
della regione che comprende non solo la contea Imperial nella California del sud ma anche il lato
messicano del confine"). Benché possa sembrare assurdo definire "miniatura"
un testo di 1.125 pagine (1.306 se si contano la bibliografia, le note alle cartine geografiche
e alle fonti, ecc.), in confronto al suo studio sulla violenza intitolato Come un'onda
che sale e che scende (nell'edizione originale, 3.352 pagine suddivise in sette
volumi), questo libro è piuttosto piccolo, ma nello stesso tempo abbastanza lungo da consentire
al lettore di dimenticare gran parte dell'inizio già prima di aver raggiunto la periferia
della parte centrale. È un tipo di documento al quale sarebbe stato utile aggiungere un repertorio
di concordanze.
Imperial nasce in parte grazie al materiale raccolto
per un romanzo sull'«entità che definisco Imperial», che Vollmann progettava
di scrivere da tempo. Dopo l'introduzione, l'autore dedica una ventina di pagine alla
spiegazione del perché abbia deciso di non usare la forma romanzesca; in queste pagine figurano
alcuni falsi inizi del possibile romanzo (che rifanno il verso a Steinbeck, Flaubert, allo stesso
Vollmann, a un funzionario del Servizio Immigrazione e Naturalizzazione che una volta l'ha
tenuto in stato di fermo al confine e cosí via). L'autore prende anche a mo' di antitesi
del suo intento uno sdolcinato bestseller di Harold Bell Wright dal titolo The Winning
of Barbara Worth, ambientato nella stessa regione e pubblicato agli inizi del Novecento,
facendo un confronto tra i cliché di quest'ultima opera da un lato e, dall'altro,
Furore e Un cuore semplice. Ma alla fine tutti
i modelli vengono abbandonati: «Imperial è (l'avete mai sentita questa?) una
pagina bianca. Cosa vogliamo scriverci sopra?».
Anche Vollmann dunque ha difficoltà a definire Imperial,
che si potrebbe descrivere come un documentario sulla vita vissuta al confine; non a caso affronta
l'argomento in due modi, visto che nella stessa stagione in cui viene pubblicato il mastodontico
volume esce anche l'omonimo libro di fotografie della regione e della sua popolazione scattate
dall'autore stesso. Scritto nell'arco di un decennio, il testo accumula migliaia
e migliaia di parole senza mai acquistare una forma pienamente coerente; anche se molte parti sono
rese in maniera magistrale, Vollmann non mette mai del tutto a fuoco l'opera. Ma forse in fin
dei conti non è neanche questo che vuole.
Imperial affronta una serie di temi vastissimi,
che vanno dal rapporto tra Stati Uniti e Messico (e per estensione tra Primo e Terzo Mondo) alle conseguenze
non volute della trasformazione del territorio a causa dell'intervento umano (che in questo
caso culminano non solo con il consueto inquinamento di aria e acqua ma con la carenza d'acqua
che probabilmente affliggerà il pianeta, per illustrare la quale si parla del dirottamento
della fornitura idrica dell'Imperial Irrigation District deciso, agli inizi di questo
XXI secolo, per placare la sete delle città in continua espansione sulla costa della California
del Sud). Per dirla molto più concisamente di Vollmann, quella che oggi è la Imperial
Valley fu considerata, prima dai conquistatori spagnoli e poi dai cercatori d'oro della
metà dell'Ottocento, come un deserto pressoché impraticabile che fu fatale
a molti (sebbene diverse tribù indiane la considerino la loro patria, e Vollmann si scusa
con il lettore per non aver raccontato tutte le loro storie per intero).
Il lago Salton, oggi una cloaca velenosa che raccoglie il deflusso di acque fluviali inquinate,
all'epoca non era altro che una depressione di terra arida, come potrebbe tornare a essere
in futuro.
A cavallo tra Otto e Novecento alcuni giganteschi progetti
di irrigazione cominciarono a trasformare la regione in un "paradiso" agricolo che
fu pubblicizzato in maniera aggressiva come una sorta di nuova frontiera per i piccoli proprietari
terrieri. Secondo Vollmann, tuttavia, quella del paradiso è sempre stata una falsa immagine
e tante pagine del libro descrivono il fallimento dei piccoli agricoltori che abboccarono all'esca.
Per buona parte del Novecento, Imperial è stata effettivamente un bastione del settore agroindustriale
che ha catalizzato la popolazione dei lavoratori emigranti messicani (agli spostamenti dei quali
l'autore dedica molte delle sue pagine più suggestive). Ma ultimamente è diventata
la contea più povera della California e il suo futuro è enucleato da una sigla, quella
del FADE, ovvero Farm Abandonment Desertification Effect: effetto di desertificazione e abbandono
dei poderi agricoli.
I duecento e otto capitoli di cui si compone Imperial,
in un alternarsi di resoconti storici, analisi sociali, reportage in prima persona stile Nuovo
giornalismo, interviste di qua e di là dal confine e porzioni scelte di materiale autobiografico,
non sono presentati in ordine cronologico. Viste le dimensioni enormi dell'opera, si fatica
a capire lo scopo della successione stabilita da Vollmann, anche se è vero che consente rapidi
confronti tra passato e presente che danno risalto al tema. Manca un filo narrativo unificatore
e si sente l'assenza di personaggi a tutto tondo. Nella sua disamina di situazioni e luoghi
diversi, Vollmann documenta centinaia di conversazioni con prostitute di strada, frequentatori
di bar, operai di maquiladora, polizia frontaliera, abitanti di ejidos,
agricoltori di origine anglosassone e tante altre persone conosciute per caso; ma, rispetto alle
sue opere precedenti, la drammatizzazione è molto meno consistente e la sua presenza sulla
scena raffigurata, altrove introdotta incisivamente, qui risulta piuttosto effimera.
Zigzagando fra i tanti periodi e argomenti, Vollmann cerca
di raccontare al lettore ciò che sa (tanto, ma certo non tutto) delle attività di alcuni
tra i fondatori e promotori di Imperial, come Harry Chandler e W.F. Holt, delle manovre di William
Mulholland per portare l'acqua dal deserto a Los Angeles, della carriera del presidente
messicano Cárdenas, di César Chavez e di Emiliano Zapata, di ejidos
e maquiladoras messicani, della storia della popolazione cinese di Mexicali,
del rapporto fra Mexicali e Calexico, la città sua omologa dal lato americano del confine;
per non parlare di Los Angeles, San Diego, Coachella, Wellton-Mohawk, Inland Empire, Tijuana,
Tecate, Indio, Holtville, Duroville, Salton City... e altro.
Il fatto che «il nostro "sogno americano"
si fonda sul concetto del podere autosufficiente» è una delle sue varie affermazioni
sull'argomento. «Può darsi che il "sogno messicano" sia un tantino
diverso, però richiede un'analoga base materiale.» L'intenzione di «capire
come si siano evolute queste due speranze» contribuisce a spiegare il suo interesse per il
modello costituito da Steinbeck; Furore, in particolare, è la storia
di una «desertificazione», perché lo spodestamento dei coloni dell'Oklahoma,
causato dalle tempeste di polvere, rappresenta una sconfitta catastrofica dell'idea di
autosufficienza agricola. Il concetto che l'ethos agricolo sia
il giusto e conveniente fondamento della democrazia fu divulgato da Thomas Jefferson, venne accolto
negli anni Trenta da un gruppo di persone del Sud americano e tuttora viene difeso, fra gli altri
da Wendell Berry. La stessa idea, riferisce Vollmann, fu trasformata in slogan dai promotori di
Imperial, ma strada facendo si svuotò di significato. La realtà che l'ha soppiantata
è quella della grande holding agricola, nella quale lavorano braccianti
arrivati da oltreconfine, che non hanno né diritti né alcun titolo sulle terre che coltivano.
Attraverso interviste e reportage, Vollmann lascia intendere
che forse l'ideale agricolo è stato realizzato e tutelato meglio negli ejidos
messicani che negli Stati Uniti. Definiti dal dizionario come «appezzamenti di terreno
collettivo e inalienabile», gli ejidos erano i «terreni di
proprietà comune delle comunità indigene» prima della conquista spagnola.
A partire dal 1911, durante la rivoluzione messicana, e specie sotto il governo di Lázaro
Cárdenas negli anni Trenta, venne operata una ridistribuzione «dinamica, militante»
delle terre già appartenenti alle enormi haciendas. Alcuni degli
ejidos che nacquero all'epoca esistono tuttora nella parte messicana
della Imperial di Vollmann e dice quest'ultimo conservano caratteristiche
piuttosto jeffersoniane di «autonomia, diritto preesistente, inalienabilità».
Ma come il resto della Imperial messicana, anche gli ejidos
sono oggi minacciati dalla prospettiva di una scarsità idrica sempre maggiore, inevitabile
effetto collaterale di un utilizzo più efficiente dell'acqua, adottato negli Stati
Uniti, che probabilmente sta eliminando la dispersione delle acque in Messico.
Il testo passa da simili brani di analisi storico-sociale a
tentativi più lirici di raffigurare Imperial nella sua essenza: «Imperial è
il continuum fra Messico e America», «Imperial è Barbara Worth», «Imperial
è l'odore di un recinto di animali in una calda serata estiva», «Imperial
è acqua che scorre, che scorre via», «Imperial non è quello che credevo …
Imperial è quello che è». A volte l'approccio di Vollmann fa pensare a una
falena che si autodistrugge sbattendo contro una lampadina senza che questa ne risenta minimamente,
come se il materiale continuasse a scansare ogni suo tentativo di organizzarlo e metterlo a fuoco.
Può darsi che sia un effetto intenzionale, che l'autore voglia cioè comunicare
il peso della realtà senza fronzoli e adulterazioni riconoscendo allo stesso tempo l'impossibilità
di raffigurare questa realtà in un testo quale che sia. «La mia ignoranza su Imperial
ha riempito un lungo volume», scrive, e poi, sotto il titolo ATTENZIONE ARIDITÀ IMMINENTE
(alla pagina 115 delle 1.306 complessive), avverte i lettori che le seguenti «parabole statistiche
potrebbero essere troppo asciutte per i vostri gusti. Se saltate i capitoli che le contengono,
finirete prima il libro…».
Non c'è dubbio. Il voluminoso corpus di opere firmate
da Vollmann evidenzia la sua capacità di tirar fuori un'energia luminosa e oscura
dagli argomenti più banali; ma questo dono si rivela solo a tratti nelle centinaia di pagine
precedute dall'avviso di aridità che, sí, sono tremendamente aride e spesso
alquanto noiose. Potrebbe sorgere il sospetto che l'autore, creando un deserto cosí
vasto al centro del suo testo, abbia commesso un errore d'imitazione.
Alcuni lettori forse rimpiangeranno il fatto che Vollmann
non abbia più vergato «il romanzo su Imperial che volev[a] scrivere in origine»,
avendo l'autore dato prova da tempo di essere un importante e avvincente innovatore di forma
e funzione dell'invenzione narrativa. Ora come ora Vollmann probabilmente è più
noto al pubblico per Europe central,1 che
nel 2005 gli ha valso il National Book Award, un'opera notevole per la raffinatezza con cui
è costruita e per le dimensioni epiche dell'argomento che affronta, cioè la lotta
titanica fra la Germania e l'Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale, nella
quale compaiono figure, vividamente romanzate, di leader politici ed eroi della cultura: da Hitler
a Stalin, da ?ostakoviã alla pittrice e scultrice Käthe Kollwitz.
Vollmann nutre da sempre l'ambizione di raccontare storie
vaste. Il suo primo libro di narrativa "breve", I racconti dell'arcobaleno,
è una replica tonante al minimalismo in voga negli anni Ottanta, epoca in cui Raymond Carver
complice l'influenza redazionale di Gordon Lish nell'uso del metodo hemigwayiano
per l'invenzione di storie con elementi chiave volutamente inespressi aveva introdotto
la moda di una narrazione tersa, spoglia e spesso piuttosto vacua. In questo clima, con le sue quasi
700 pagine e le frequenti intromissioni acrobatiche dell'autore, I racconti
dell'arcobaleno esplodeva di esuberanza. C'è un racconto di oltre
130 pagine, "Nel blu profondo", in cui compaiono una comunità di senzatetto
che abita in un parco di San Francisco, un serial killer detto «lo Zombie» che li perseguita
e lo stesso Vollmann, che nei confronti di queste persone mostra un interesse meno sinistro ma non
meno vivo. Come Imperial, la maggior parte dei Racconti dell'arcobaleno
ha carattere documentario anche se, diversamente da quello, è in parte romanzata. Ed è
proprio in questi racconti che l'autore ha affinato la tecnica di presentare se stesso nelle
vesti di uno dei personaggi interni a una narrazione quasi romanzesca.
Pur essendo attratto dal racconto colossale, Vollmann (notevolmente
influenzato agli inizi da I canti di Maldoror di Lautréamont) ha
dimostrato un interesse e una bravura altrettanto spiccati per il bello scrivere confinato in
spazi volutamente ristretti. Le sue opere più mastodontiche si compongono tendenzialmente
di tessere di testo a volte non più lunghe di due centinaia di parole, vergate con l'intensità
di un poema in prosa. Da "Nel blu profondo": «A volte il cielo era solido e talmente
blu che mi chiedevo se gli antichi avessero effettivamente ragione a considerarlo un'enorme
cupola color blu profondo. Un giorno gli uccelli sfrecciarono più liberamente. Non c'era
nessuno sdraiato sull'erba. Volpe Nera sedeva all'ombra dell'albero, ma mancavano
Mary e tutti gli altri, a parte uno che sedeva col mento sul petto, i gomiti appoggiati a terra, le
mani in tasca, fissando dritto davanti a sé. Ogni tanto si grattava i capelli. Era lí
tutti i giorni. Tutti i santi giorni! A pensarci mi gira la testa. Fossi costretto a passare la vita
sull'erba, pregherei che venisse lo Zombie».
Caratteristico di Vollmann è l'uso di un'idea
metaforica ricercata in cui una certa improntitudine concettuale si fonde con la straordinaria
verve linguistica che la esprime. Dalla postfazione del volume di fotografie Imperial:
«A quattordici o quindici anni spasimavo per qualche ragazza che conoscevo appena solo perché
mi aveva baciato. L'abbracciavo, lei mi infilava la lingua in bocca allegramente e cominciavamo
a baciarci con passione. Poco dopo facevo scivolare la mano nelle sue mutandine. Poi ci staccavamo
e io iniziavo a spasimare. Credevo di esserne innamorato, e quindi forse lo ero. I suoi capelli appiccicati
sul viso roseo, accaldato e sudato, gli uccelli e le cicale, le siepi alte che si facevano più
ombrose, i monti nitidi e bidimensionali: era un tutto armonioso. E dire che confondevo il desiderio
con l'amore equivale a dire che amavo sul serio tutto ciò che mi emozionava; toccando
la ragazza conquistavo l'estasi, che si trasformava in gratitudine; la sua tenerezza diventava
la mia e ciò che entrambi definivamo amore diventava cosí il nostro mondo segreto, che
una fantasia alta come una spruzzata di fiori d'oleandro bianco polvere teneva separato
da qualsiasi altro luogo. Qualche anno dopo ci saremmo dimenticati l'uno il nome dell'altra.
Ma forse questo fatto invalida qualcosa? Qui a Imperial dove la terra è grossa e morbida mi
fermo dietro a un tubo nero di irrigazione a goccia, tutto solo nel vento caldo della sera, e le mie
speranze e fantasie nuove sono di un color bianco panna come il lago Salton all'imbrunire;
descriverò Imperial e la sposerò; mi nasconderò lontano dalla solitudine e dietro
questa parete di oleandri alta un metro e mezzo mi trasformerò. La mia passione per Imperial
è reale né più né meno del sentimento reciproco che provavamo io e quelle
fanciulle ed è stato qui, proprio qui, che ho baciato il viso roseo, accaldato e sudato di una
ragazza; ricordo il sapore di quel sudore e il suo viso continua a essere reale ai miei occhi come
se mi stesse guardando da una fotografia; né la dimenticherò mai; almeno è quello
che voglio o volevo pensare, anche se inevitabilmente la memoria si sperde come queste gocce bianche
che strisciano sotto i tubi neri del sistema di irrigazione. Qual era il suo numero di telefono?».
Nel racconto Verso Occidente l'Impero dirige
il suo corso, originariamente contenuto nella raccolta La ragazza dai
capelli strani (1989),2 il compianto David Foster Wallace fa
esprimere a un giovane autore che frequenta un laboratorio di scrittura narrativa (diretto da
una caricatura di John Barth) il desiderio frustrato di andare oltre «l'atto di amore
per se stesso di un solipsista solitario» (come egli definisce la metanarrativa barthiana)
per «scrivere qualcosa che vi dia una fitta al petto. Che vi trafigga … Probabilmente
quel qualcosa userebbe la metafiction come una maschera vivace e sorridente, come un innocuo costume
con le scarpone flosce».3 Negli anni successivi, tuttavia, non è
stato Wallace bensí Vollmann a rompere lo stampo della metanarrativa fuggendo dai circoli
elegantemente chiusi dell'autoreferenzialità ideati da Barth, Pynchon, Donald
Barthelme e altri, pur attingendo a molti metodi usati da quegli stessi scrittori per raggiungere
obiettivi nettamente diversi. Se la metanarrativa degli anni Sessanta non finisce mai di attirare
l'attenzione del lettore sulla propria ingegnosità, la narrativa di Vollmann,
benché sia altrettanto cosciente di sé e tenda a porre in primo piano la consapevolezza
dell'autore, è ben decisa ad aprirsi verso l'esterno per coinvolgere il mondo
e comunicargli sentimenti sinceri.
Vollmann informa i lettori a più riprese che per scrivere
Imperial ha voluto abbandonare i metodi che gli avevano consentito di
creare dei personaggi letterari sulla base di personaggi veri e storici, non solo in Europe
central, ma anche nell'imponente serie di romanzi ispirati ai primi incontri
fra europei e amerindiani, pubblicati fra il 1990 e il 2001 (La camicia
di ghiaccio, Fathers and Crows, The
Rifles, Argall). Lo scrittore sostiene che trasformare
in personaggi romanzeschi le centinaia di persone intervistate per l'opera in esame o le
tante altre persone che lo hanno aiutato facendogli da guida o da interprete significherebbe falsificarle.
«Io so inventare un personaggio, sul quale sarebbe senz'altro possibile spargere
qualche goccio di attualità locale, un po' come un fruttivendolo ambulante di Mexicali
spruzza acqua sulle sue arance e le sue ciliegie contro l'assedio del mese di luglio. Ma la
vita è già abbastanza disonesta…» Questo vincolo autoimposto, però,
significa che le persone presentate in Imperial non appaiono mai tratteggiate
cosí vividamente come quelle di opere precedenti quali I racconti dell'arcobaleno
o Puttane per Gloria.
I lettori che insieme a Imperial acquistano
l'omonimo volume di fotografie saranno ricompensati, perché i molti ritratti delle
persone che Vollmann non ha voluto romanzare sono degni della sua descrizione delle foto di Walker
Evans contenute in Sia lode ora a uomini di fama,4 che
presentano i diversi soggetti «tranquillamente, innegabilmente, struggentemente, ineludibilmente».
Vollmann, tuttavia, non prende a modello senza profonde riserve la collaborazione fra Evans e
James Agee: «Sia lode ora a uomini di fama è un'espressione
elitaria di desideri egualitari», commenta; leggere quel libro equivale a «ricevere
uno schiaffo». Vollmann relega in un'appendice le didascalie delle proprie foto;
non vuole parole ad accompagnare queste immagini. Stavolta desidera ancor più che in Poor
People (2007) che la realtà della vita altrui parli da sola e intende presentare
«l'impossibilità che io riesca ad avere col tempo una comprensione dinamica
di queste vite, la totale assenza di un nesso fra me e loro…». Data quest'inevitabile
incomprensione, «scrivere un romanzo su Marìa equivarrebbe a darle uno schiaffo.
Un giorno, se mai riuscirò a girare il mondo e a vedere di più, a soffrire di più
anche se magari non ne varrà la pena scrivere un romanzo su di lei potrebbe diventare
un atto di bellezza e verità».
Nella sua incapacità più volte dichiarata di
affrontare questioni di vasta portata, Imperial somiglia più di
ogni altro titolo del suo grande corpus di opere ad Afghanistan Picture Show ovvero,
come ho salvato il mondo, testo molto più breve che fu il primo scritto da Vollmann,
ma pubblicato nel 1992 come sesto. «All'epoca ero giovane e sicuro di ciò che ero
in grado di fare», ricorda in Imperial. «Stavo scrivendo la
mia storia personale.» In Afghanistan Picture Show, però,
la narrazione procede su un binario doppio, portata avanti da un avatar dell'autore dei primi
anni Novanta, che ammira, e allo stesso tempo rimpiange, l'ingenuità tremendamente
sfortunata del Vollmann più giovane che negli anni Ottanta era partito per l'Afghanistan
fantasticando di aiutare i mujaheddin a scacciare l'invasore sovietico.
Nei ritratti che Vollmann fa di se stesso scrittore e brava persona
c'è sempre una tensione fra gli spessi strati di navigato cinismo che egli ha acquisito
col tempo e il persistente impulso a fare del bene e a essere buono. Quest'impulso è una
componente caratteriale che Vollmann cerca costantemente di salvaguardare e conservare e che
ammira anche in altri, a esempio in Steinbeck, nella responsabilità sociale e nel profondo
riguardo per la verità che dimostrava descrivendo i suoi personaggi, oppure nel Flaubert
autore di Un cuore semplice. Imperial e Afghanistan
Picture Show tendono a mettere a nudo più di ogni altro libro l'origine
di questi elementi nella sua opera.
In una divagazione apparentemente casuale, Afghanistan
Picture Show rivela una fonte del rapporto che l'autore ha con la sofferenza
umana: «Quando ero piccolo, la mia sorellina era annegata perché io non avevo fatto
attenzione». In questa frase potrebbe trovarsi il germe delle reazioni che Vollmann esprime
verso il dolore altrui e della sua sensazione di non soffrire mai abbastanza. L'episodio
cui accenna brevissimamente nel libro precedente viene rivisitato in Imperial
nella descrizione di questo ricordo ricorrente: «… anno dopo anno non riesco a sottrarmi
al dolore e all'orrore, che si ripetono all'infinito. Per il resto dell'anno
[mia sorella] è morta, ma quel giorno di fine estate (un giorno adatto per fare una nuotata
e, quindi, per annegare) muore di più, inabissandosi nel limo sul fondo del laghetto in cui
la decomposizione della sua immagine-ricordo non lascia nient'altro o quasi nient'altro
che raccapriccio; dentro lo scheletro fangoso, in un'inversione dell'anatomia quotidiana,
vive una bambina di sei anni timida e carina, con la frangetta castana e gli occhi castani che forse
mi vuole ancora bene e magari mi ha addirittura perdonato la parte che ho avuto in quell'incidente».
Questo brano è inserito in un ciclo del dolore ancora più
particolareggiato che figura nel capitolo "Paesaggi d'amore", resoconto approfondito
e straziante della perdita di una fidanzata con cui Vollmann si recava spesso a Imperial. L'episodio
descrive la rottura con un tormentoso ralenti e quindi si fa strada attraverso
l'angoscia ripetitiva e ossessiva delle struggenti pene d'amore che ne conseguono:
«Continuavo a sforzarmi allo stremo per non chiamare il suo numero di telefono per un altro
quarto d'ora, poi per un'altra ora e cosí via, giorno dopo giorno … Sapevo
benissimo che non appena l'avessi vista o avessi sentito la sua voce sarei ridiventato quello
di sempre, rilassato, vigile, capace, premuroso e addirittura gioioso, perché la parte
non delineata del mio cuore (che tanto varrebbe definire amore) non era affatto morta. Era ancora
fortissima. Quella donna era l'amore della mia vita. Perciò volevo morire».
Per quanto possa essere fondamentale fra le motivazioni che
l'hanno spinto a scrivere Imperial, l'acuta sofferenza provata
da Vollmann per la perdita dell'amata e per la perdita della sorella non assume mai un ruolo
centrale nell'economia del libro. Poco dopo la conclusione di "Paesaggi d'amore"
salta fuori l'avviso ATTENZIONE ARIDITÀ IMMINENTE, dopodiché il lettore viene
sommerso da una valanga di dati statistici e aneddotici. Anche se nella (lunga!) parte restante
del testo continua a essere presente in maniera marginale come reporter, Vollmann, in veste di
personaggio coinvolto nelle storie che racconta, sparisce e la sua presenza diventa spettrale
come il suo riflesso negli occhiali da sole di Diana, la ragazza del locale notturno (in una foto
scattata nel 1999).
Ma sarà mai legittimo usare la sofferenza degli altri
per fare arte? Lo stesso interrogativo sorge in Europe central
quando il regista sovietico di documentari Roman Karmen dice a Käthe Kollwitz: «Voglio
dedicare la mia vita alle donne con bambini morti» (che la Kollwitz ritraeva implacabilmente
nelle sue opere). «Tuttavia, mi pare scorretto "utilizzarli" per un qualsiasi
scopo, quand'anche si trattasse del bene universale.» La replica della Kollwitz serve
altrettanto bene a giustificare la pratica artistica di Vollmann: «Roman Lazarevic, nel
mio caso è molto semplice. Sono io la donna con il bambino morto. E sono anche il bambino».
In Imperial, tuttavia, Vollmann rifiuta le scelte del passato, astenendosi
dall'offrire una caratterizzazione (se non nelle fotografie) altrettanto presente e completa
di quella della Kollwitz romanzata.
Lo scrittore dimostra una tenerezza particolare nei confronti
dei suoi personaggi meno riusciti, che vanno ad aggiungersi ai defunti a volte anonimi di cui si
è quasi persa memoria. Per quanto Imperial sia ben irrigata, cammin facendo molte persone
che valicano il confine alla ricerca di una vita migliore rischiano di morire o muoiono di caldo
e disidratazione. Vollmann testimonia a più riprese la morte: quella degli aspiranti emigranti
abbandonati senz'acqua nel deserto dai "coyote" che promettono loro di guidarli
oltreconfine; quella di Hazel Deed, una ragazza bianca deceduta nel 1920 a quattordici anni per
la rottura dell'appendice; quella di un messicano sorprendentemente ben vestito che viene
ripescato, annegato, in un canale, e che in qualche modo gli ricorda José López, suo
interprete, guida e amico, che da un giorno all'altro è semplicemente sparito.
Vollmann dedica Imperial alla memoria
di uno di questi sconosciuti scomparsi, Serafìn Ramìrez Hernández, ritratto
a mano su un volantino che ne denunciava la sparizione e che probabilmente sarà l'unica
testimonianza commemorativa che avrà mai (il volantino figura tra le illustrazioni del
volume insieme al certificato di morte di Hazel Deed e altri documenti del genere). Nelle vaste
e aride distese di questo libro, i brani dedicati alle persone definite «no olvidado»
nei loro cimiteri dei poveri sono graditissime oasi di scrittura forte e di sentimenti profondi.
Leggere un'opera che ci mette tanto a far capire che non
riuscirà a rendere né a definire perfettamente il suo tema può essere frustrante,
anche se il punto forse è proprio questo. Dal materiale rimasto ai margini di questo libro
se ne poteva trarre un altro molto più ordinato e attraente; se Vollmann avesse voluto, sicuramente
sarebbe stato capace di farlo. Si discute molto del concetto di "delineare" in relazione
a mappe, a barriere e confini fisici e a confini più astratti. Vollmann tende a vedere quest'operazione
del delineare come una forma di tirannia, dall'inizio, quando la distribuzione di terreni
ai conquistadores cominciò a spingere fuori dei loro territori
gli indios affamati, alla fine, ora che l'Imperial post-agricola può essere spezzettata
in altri agglomerati suburbani. E allora: abbasso chi delinea! Né il testo di Imperial
né ciò che si propone di raffigurare ammettono un centro o accettano un limite chiaro.
Purtroppo, però, debordano incorreggibilmente al di là di ogni linea con cui tentano
di segnarlo.
(Traduzione di Claudia Valeria Letizia)
ALTRI LIBRI DI WILLIAM T. VOLLMANN CITATI IN QUESTO ARTICOLO
1989 I racconti dell'arcobaleno, trad. di
Cristiana Mennella, Roma, Fanucci, 2001 (ed. orig. The Rainbow Stories)
1990 La camicia di ghiaccio, trad. di Nazzareno Mataldi,
Padova, Alet Edizioni, 2007 (ed. orig. The Ice Shirt)
1991 Puttane per Gloria, trad. di Antonio Scurati,
Milano, Mondadori, 1999 (ed. orig. Whores for Gloria)
1992 Afghanistan Picture Show ovvero, come ho salvato il
mondo, trad. di Massimo Birattari, Padova, Alet Edizioni, 2005 (ed. orig. An
Afghanistan Picture Show)
1992 Fathers and Crows, New York, Viking (una traduzione
italiana uscirà da Alet Edizioni)
1994 The Rifles, New York, Viking (una traduzione
italiana uscirà da Alet Edizioni)
2001 Argall, New York, Viking
2005 Come un'onda che sale e che scende: pensieri su
violenza, libertà e misure d'emergenza, ed. parziale, trad. di Gianni Pannofino,
Milano, Mondadori, 2007 (ed. orig. Rising Up and Rising Down: Some Thoughts on Violence,
Freedom and Urgent Means)
2007 Poor People, New York, Ecco (una traduzione
italiana uscirà da Mondadori)
1 . Cfr. la recensione di M. Wood, "Parables of a Violent World",
The New York Review of Books, 15 dicembre 2005, pp. 64-67.
2 . D.F. Wallace, La ragazza dai capelli strani,
Roma, Minimum fax, 2003 (ed. orig. 1989).
3 . Id., Verso Occidente l'Impero dirige
il suo corso, Roma, Minimum fax, 2001 (ed. orig. 1989), p. 37.
4 . J. Agee e W. Evans, Sia lode ora a uomini
di fama, Milano, Il Saggiatore, 1994 (ed. orig. 1941).
MADISON SMARTT BELL insegna Letteratura inglese e dirige il Kratz Center for
Creative Writing al Goucher College di Baltimora. Come romanziere, è noto al lettore italiano
per: Quando le anime si sollevano (Instar Libri, 1999); Il
signore dei crocevia (Alet, 2004); e Il Napoleone nero (Alet,
2008). Il suo ultimo libro è Devil's Dream (Pantheon, 2009).
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